Capelli neri, lunghi, occhiali neri,
abbronzato, camicia bianca e blue-jeans, Silvano si presenta una sera ai
guardiani di una caserma. Dopo aver mostrata la cartolina di chiamata alle armi,
è lasciato passare. Uno dei guardiani, al suo passaggio, mormora: “Per me si
va nella città dolente, per me si va tra la perduta gente, lasciate ogni
speranza voi che entrate”. L’ufficiale di picchetto non lo saluta neppure.
Silvano non dice niente. Gli è ordinato di seguire un soldato. Lo segue. E’
condotto in una palazzina uguale a tante altre. Gli annunciano che è un
bersagliere. Sarà uno specialista dei mortai da 120, i più distruttivi. E’
fatto spogliare dei suoi vestiti, dopo che è stato rapato quasi a zero.
E’ irriconoscibile. Gli fu poi
assegnato una specie di letto in un’enorme camerata. Silvano si gettò sul
letto con l’intenzione di dormire. Non riuscendo a causa del fracasso generato
dai congedanti, chiese gentilmente il rispetto del sonno altrui. Fu subito
schernito e minacciato: durante la notte lo avrebbero ricoperto di dentifricio e
di lucido delle scarpe. Silvano, di rimando, promise loro che avrebbe litigato,
cosicché, il giorno dopo, non sarebbero stati congedati. Dormì con un occhio
solo, ma non gli fu giocato scherzo alcuno. Iniziarono le lezioni teoriche sul
metodo migliore di uccidere il maggior numero di persone. Silvano, non ancora
ambientato, accettava passivamente i calcoli numerici e l’uso dei mezzi
scientifici e le teorie dell’omicidio di massa. Dopo qualche giorno cominciò
a sentire le assurdità dello spirito di corpo, l’orgoglio d’essere
bersagliere, l’orgoglio d’essere discendente d’eroi morti in gloriose ed
epiche battaglie. Non riusciva a capire perché gli autoveicoli militari
dovessero andare al passo ed i bersaglieri di corsa; non riusciva a capire perché
la piazza dovesse essere attraversata sempre di corsa, perché gente più
giovane di lui dovesse essere salutata senza salutare ed altre innumerevoli cose
e fatti. Il corso fu breve.
Ad uccidere s’imparava in fretta.
Aiutò il responsabile delle comunicazioni ad installare un sistema d’antenne.
Passò così l’inverno al caldo, ascoltando i radioamatori. Stanco di quella
non vita cominciò a frequentare la compagnia. Riuscì ad ottenere il rispetto
dei compagni, rispettandoli nei loro diritti e facendosi rispettare. Agli inizi
di dicembre iniziarono di nuovo i corsi per specialisti dei mortai da 120.
Durante una lezione, mentre leggeva un libro diverso, regalo di Mirelle, mentre
sognava Mirelle incantato, l’ufficiale insegnante gli tolse con prepotenza il
libro dalle mani e lo punì. Silvano s’irritò per la prepotenza. Si alzò. Si
avvicinò all’ufficiale. Gli strappò dalle mani il suo libro e a voce alta
affermò:
-Tu puoi punirmi se riesci a dimostrare
che non ero attento, ma le cose private non le tocchi senza il mio permesso.
L’ufficiale, tra il meravigliato e l’offeso, presentò una richiesta di
punizione. Di fronte al colonnello comandante della caserma ebbe un po’ paura.
Paura che svanì quando questi picchiò un pugno sul tavolo diventando paonazzo
e facendo cadere gli occhiali che erano appoggiati sul naso rubicondo.
A Silvano sembrò di vedere Olio.
Avrebbe voluto ridere, ma si dominò. Il colonnello disse:
-Voglio sentire il giudice militare
come la pensa su questo fatto. Aspetta di la!
Fu fatto uscire. Dopo circa dieci
minuti fu richiamato. Di nuovo sull’attenti. Di nuovo il saluto militare. Il
colonnello sentenziò:
-Tu sei uno di quei tipi pericolosi che
può facilmente scivolare verso il reato. Stai attento perché la prossima volta
non ti perdoneremo. Farai sette giorni di cella di rigore. Vai!
Fu subito accompagnato da una guardia
armata in cella di rigore. Prima di imprigionarlo gli tolsero i lacci delle
scarpe, la cintura che gli sorreggeva i calzoni e la catenella d’oro. La
stanza era due metri per tre, bianca, senza finestre, con un tavolaccio color
cenere che occupava metà dello spazio. Silvano vi si sdraiò. Sentì chiudere
la porta a catenaccio. Mentre guardava il soffitto pensò di essere diventato un
criminale.
Ma non imparò la lezione. Le assurdità
della vita militare erano troppo per lui. In un’altra stagione della vita
forse gli avrebbe fatto piacere riposarsi un po’, ma ora a vent’anni a
compiere atti assurdi...pensò a Mirelle e le scrisse. Uscito dalla cella di
rigore cominciò a trascurare la divisa, a tenersi i capelli più lunghi, ad
avere la barba lunga. Non salutava i superiori, cambiava strada al vederli o
voltava la testa in altra direzione. In cambio ricevette un’infinità di
punizioni. Ma a Silvano non interessava di dover spazzare cortili, camere e
cessi; non gli importava di non poter uscire dalla caserma la sera.
L’importante era che sua madre gli inviasse dei soldi ogni tanto. Fumava due
pacchetti di sigarette al giorno e beveva più di venti caffè. Uscire era
com’essere in caserma: tutti lo riconoscevano come militare, anche se non
portava la divisa del militare. In quel paese del Trentino di 5.000 abitanti,
20.000 soldati perennemente presenti, erano troppi. La gente li sopportava
appena, in quanto era per loro una fonte, la maggiore, di speculazione e
guadagno. Le ragazze erano state messe sull’avviso di non dare troppa
confidenza a gente che si divertiva e che non sarebbe mai più ritornata. Il
capitano della compagnia una mattina lo richiamò di fronte a tutti:
-Perché continui a non portare il Fez?
E’ una cosa da nulla! Cosa ti costa!
-A me niente. Replicò scattando
sull’attenti. Ma perché, se davvero è una cosa da niente, continuate a
punirmi ed ad insistere per farmelo portare? Mi strappa tutti i capelli questo
ridicolo capello viola.
Il capitano lasciò cadere il discorso
e lo punì. Silvano se ne infischiò. Il giorno che ricevettero l’ordine, lui
ed i suoi compagni, di mettersi in marcia sotto il sole e di scavare delle buche
per poi riempirle, dopo aver camminato per una ventina di km, si ribellò.
-E’ assurdo, sostenne, farci scavare
delle buche inutili. Da civile guadagnavo bene a far buche e servivano a
qualcosa. Voi siete pazzi. I compagni furono d’accordo con lui. L’ufficiale
dovette subire. Nessuno gli ubbidiva. Non poté neppure punire Silvano ed i suoi
compagni e non perché si era reso conto che era tutto assurdo, ma perché aveva
compreso che se li puniva nessuno avrebbe più ubbidito ai suoi ordini.
S’accordò con loro; entrarono in un bar a trascorrere il tempo: il patto era
che nessuno fiatasse. Si capiva che era interessato a far carriera.
Il giorno di Natale, Silvano ritagliò
da un giornale la parola “NATO e COLPO DI STATO IN ITALIA”. Lo sostituì a
Gesù Bambino nel presepe. Quando il capitano lo vide s’infuriò bloccò tutte
le licenze, consegnò la compagnia, ma nessuno fiatò.
Vennero le elezioni amministrative. Il capitano comunicò alla compagnia
schierata in adunata:
-Per ragioni di servizio, non tutti
possono recarsi al loro comune per votare. C’è qualcuno di voi che deve
dichiarare qualcosa?
Silvano si guardò attorno. Alzò la
mano. Gli fu permesso di parlare. Sostenne:
-Andare a votare non è solo un
diritto... è anche un dovere.
-Dimmi la tua matricola.
-I953
L’adunata fu sciolta. Alcuni giorni
dopo era fatto imbarcare per la Sardegna. Era quasi estate. Il mare era
magnifico e godeva di una più ampia libertà. Un giorno, mentre era di guardia
al poligono di tiro, assaggiò LSD. Fu fortunato che non gli capitò niente.
Mirelle lo venne a trovare. Trascorsero insieme magnifici giorni a tuffarsi
dagli scogli, ad amarsi sulla spiaggia, nell’acqua, ad innamorarsi sempre più.
Si era abbronzato e godeva di ottima salute. Arrivò il giorno del rientro alla
base sul continente. Silvano fu più scontento che mai. Salutò Mirelle con le
lacrime agli occhi. Le promise che sarebbe andato a Parigi a vivere con lei. Fu
fatto partire con l’aereo. Ritornato in caserma, spalleggiato dai compagni,
fece eliminare gli scherzi tra di loro eccetto che verso gli ufficiali. Un
giorno, uno di loro, ricevette un secchio di escreti sul capo. Scrisse dei
documenti sulla vita militare, sulla sua inutilità, sul suo costo per lo stato
e per le famiglie. Lui ci aveva rimesso un anno di paga e ne aveva fatti
spendere a sua madre altrettanti. Organizzò con altri amici lo sciopero della
fame per protestare contro la mensa.
Un giorno si scontrò persino con una
ronda militare mentre era in libera uscita. Era al festival dell’Unità. Con
alcuni amici se ne stava seduto a mangiare patatine fritte ad un tavolo, con la
divisa in disordine. Passò la ronda. Il sergente che la comandava ordinò ad un
militare:
-Mandami quel bersagliere!
Il giovane soldato si avvicinò ad
eseguire l’ordine. Silvano l’anticipò:
-Dì al tuo sergente di venire al
tavolo se vuole parlarmi.
Il sergente si avvicinò. Comandò:
-Alzati! Mettiti sull’attenti! Dammi
il tuo tesserino di riconoscimento!
-Calma! Rispose Silvano. Siediti e
mangia con me. Offro io!
-Ti ho detto di alzarti!
-Ed io ti ho risposo di sederti, se
vuoi. Qui siamo in un luogo privato. Tra amici. Tu non hai nessun potere
militare qui.
Il sergente mise mano alla pistola. La
gente ed i militari che stavano seguendo la scena allontanarono e nascosero
Silvano. Lo misero in un auto, accanto ad una donna bionda ed accompagnato in
caserma.
Ogni volta che poteva uscire, rientrava
tenendo sotto braccio “Lotta Continua”. Lo faceva apposta, perché sapeva
che lo guardavano male. Un ufficiale suo amico, lo avvisò di stare attento
perché stavano cercando di prenderlo in fallo. Lo volevano spedire in un
carcere militare. Silvano si fece attento. Non ci riuscirono ad incastrarlo. O
forse avevano capito che era goliardia. Ribellione, non politica.
Quando fu congedato non fu contento
soltanto lui, ma anche i suoi diretti superiori. Il capitano gli disse:
-Sarai anche un brav’uomo, non
discuto, ma come militare sei zero.
Silvano non rispose nulla. Al sergente
che gli consegnava il foglio di congedo con la possibilità di richiamo chiese:
-Non posso stracciarlo?
Tornato
dagli amici, dopo aver letto il foglio commentò:
-Questi sono matti. Mi congedano come
assaltatore. Come se io fossi così pazzo da gettarmi sotto i carri armati
nemici. Stiano bene attenti. In caso di guerra ucciderei, certo, ma il mio
diretto comandante.
In autostop, senza avere con sé neppure un ricordo tangibile di quella vita inutile, tornò a casa.