CAPITOLO VII

Capelli neri, lunghi, occhiali neri, abbronzato, camicia bianca e blue-jeans, Silvano si presenta una sera ai guardiani di una caserma. Dopo aver mostrata la cartolina di chiamata alle armi, è lasciato passare. Uno dei guardiani, al suo passaggio, mormora: “Per me si va nella città dolente, per me si va tra la perduta gente, lasciate ogni speranza voi che entrate”. L’ufficiale di picchetto non lo saluta neppure. Silvano non dice niente. Gli è ordinato di seguire un soldato. Lo segue. E’ condotto in una palazzina uguale a tante altre. Gli annunciano che è un bersagliere. Sarà uno specialista dei mortai da 120, i più distruttivi. E’ fatto spogliare dei suoi vestiti, dopo che è stato rapato quasi a zero.

E’ irriconoscibile. Gli fu poi assegnato una specie di letto in un’enorme camerata. Silvano si gettò sul letto con l’intenzione di dormire. Non riuscendo a causa del fracasso generato dai congedanti, chiese gentilmente il rispetto del sonno altrui. Fu subito schernito e minacciato: durante la notte lo avrebbero ricoperto di dentifricio e di lucido delle scarpe. Silvano, di rimando, promise loro che avrebbe litigato, cosicché, il giorno dopo, non sarebbero stati congedati. Dormì con un occhio solo, ma non gli fu giocato scherzo alcuno. Iniziarono le lezioni teoriche sul metodo migliore di uccidere il maggior numero di persone. Silvano, non ancora ambientato, accettava passivamente i calcoli numerici e l’uso dei mezzi scientifici e le teorie dell’omicidio di massa. Dopo qualche giorno cominciò a sentire le assurdità dello spirito di corpo, l’orgoglio d’essere bersagliere, l’orgoglio d’essere discendente d’eroi morti in gloriose ed epiche battaglie. Non riusciva a capire perché gli autoveicoli militari dovessero andare al passo ed i bersaglieri di corsa; non riusciva a capire perché la piazza dovesse essere attraversata sempre di corsa, perché gente più giovane di lui dovesse essere salutata senza salutare ed altre innumerevoli cose e fatti. Il corso fu breve.

Ad uccidere s’imparava in fretta. Aiutò il responsabile delle comunicazioni ad installare un sistema d’antenne. Passò così l’inverno al caldo, ascoltando i radioamatori. Stanco di quella non vita cominciò a frequentare la compagnia. Riuscì ad ottenere il rispetto dei compagni, rispettandoli nei loro diritti e facendosi rispettare. Agli inizi di dicembre iniziarono di nuovo i corsi per specialisti dei mortai da 120. Durante una lezione, mentre leggeva un libro diverso, regalo di Mirelle, mentre sognava Mirelle incantato, l’ufficiale insegnante gli tolse con prepotenza il libro dalle mani e lo punì. Silvano s’irritò per la prepotenza. Si alzò. Si avvicinò all’ufficiale. Gli strappò dalle mani il suo libro e a voce alta affermò:

-Tu puoi punirmi se riesci a dimostrare che non ero attento, ma le cose private non le tocchi senza il mio permesso. L’ufficiale, tra il meravigliato e l’offeso, presentò una richiesta di punizione. Di fronte al colonnello comandante della caserma ebbe un po’ paura. Paura che svanì quando questi picchiò un pugno sul tavolo diventando paonazzo e facendo cadere gli occhiali che erano appoggiati sul naso rubicondo.

A Silvano sembrò di vedere Olio. Avrebbe voluto ridere, ma si dominò. Il colonnello disse:

-Voglio sentire il giudice militare come la pensa su questo fatto. Aspetta di la!

Fu fatto uscire. Dopo circa dieci minuti fu richiamato. Di nuovo sull’attenti. Di nuovo il saluto militare. Il colonnello sentenziò:

-Tu sei uno di quei tipi pericolosi che può facilmente scivolare verso il reato. Stai attento perché la prossima volta non ti perdoneremo. Farai sette giorni di cella di rigore. Vai!

Fu subito accompagnato da una guardia armata in cella di rigore. Prima di imprigionarlo gli tolsero i lacci delle scarpe, la cintura che gli sorreggeva i calzoni e la catenella d’oro. La stanza era due metri per tre, bianca, senza finestre, con un tavolaccio color cenere che occupava metà dello spazio. Silvano vi si sdraiò. Sentì chiudere la porta a catenaccio. Mentre guardava il soffitto pensò di essere diventato un criminale.

Ma non imparò la lezione. Le assurdità della vita militare erano troppo per lui. In un’altra stagione della vita forse gli avrebbe fatto piacere riposarsi un po’, ma ora a vent’anni a compiere atti assurdi...pensò a Mirelle e le scrisse. Uscito dalla cella di rigore cominciò a trascurare la divisa, a tenersi i capelli più lunghi, ad avere la barba lunga. Non salutava i superiori, cambiava strada al vederli o voltava la testa in altra direzione. In cambio ricevette un’infinità di punizioni. Ma a Silvano non interessava di dover spazzare cortili, camere e cessi; non gli importava di non poter uscire dalla caserma la sera. L’importante era che sua madre gli inviasse dei soldi ogni tanto. Fumava due pacchetti di sigarette al giorno e beveva più di venti caffè. Uscire era com’essere in caserma: tutti lo riconoscevano come militare, anche se non portava la divisa del militare. In quel paese del Trentino di 5.000 abitanti, 20.000 soldati perennemente presenti, erano troppi. La gente li sopportava appena, in quanto era per loro una fonte, la maggiore, di speculazione e guadagno. Le ragazze erano state messe sull’avviso di non dare troppa confidenza a gente che si divertiva e che non sarebbe mai più ritornata. Il capitano della compagnia una mattina lo richiamò di fronte a tutti:

-Perché continui a non portare il Fez?  E’ una cosa da nulla! Cosa ti costa!

-A me niente. Replicò scattando sull’attenti. Ma perché, se davvero è una cosa da niente, continuate a punirmi ed ad insistere per farmelo portare? Mi strappa tutti i capelli questo ridicolo capello viola.

Il capitano lasciò cadere il discorso e lo punì. Silvano se ne infischiò. Il giorno che ricevettero l’ordine, lui ed i suoi compagni, di mettersi in marcia sotto il sole e di scavare delle buche per poi riempirle, dopo aver camminato per una ventina di km, si ribellò.

-E’ assurdo, sostenne, farci scavare delle buche inutili. Da civile guadagnavo bene a far buche e servivano a qualcosa. Voi siete pazzi. I compagni furono d’accordo con lui. L’ufficiale dovette subire. Nessuno gli ubbidiva. Non poté neppure punire Silvano ed i suoi compagni e non perché si era reso conto che era tutto assurdo, ma perché aveva compreso che se li puniva nessuno avrebbe più ubbidito ai suoi ordini. S’accordò con loro; entrarono in un bar a trascorrere il tempo: il patto era che nessuno fiatasse. Si capiva che era interessato a far carriera.

Il giorno di Natale, Silvano ritagliò da un giornale la parola “NATO e COLPO DI STATO IN ITALIA”. Lo sostituì a Gesù Bambino nel presepe. Quando il capitano lo vide s’infuriò bloccò tutte le licenze, consegnò la compagnia, ma nessuno fiatò.  Vennero le elezioni amministrative. Il capitano comunicò alla compagnia schierata in adunata:

-Per ragioni di servizio, non tutti possono recarsi al loro comune per votare. C’è qualcuno di voi che deve dichiarare qualcosa?

Silvano si guardò attorno. Alzò la mano. Gli fu permesso di parlare. Sostenne:

-Andare a votare non è solo un diritto... è anche un dovere.

-Dimmi la tua matricola.

-I953

L’adunata fu sciolta. Alcuni giorni dopo era fatto imbarcare per la Sardegna. Era quasi estate. Il mare era magnifico e godeva di una più ampia libertà. Un giorno, mentre era di guardia al poligono di tiro, assaggiò LSD. Fu fortunato che non gli capitò niente. Mirelle lo venne a trovare. Trascorsero insieme magnifici giorni a tuffarsi dagli scogli, ad amarsi sulla spiaggia, nell’acqua, ad innamorarsi sempre più. Si era abbronzato e godeva di ottima salute. Arrivò il giorno del rientro alla base sul continente. Silvano fu più scontento che mai. Salutò Mirelle con le lacrime agli occhi. Le promise che sarebbe andato a Parigi a vivere con lei. Fu fatto partire con l’aereo. Ritornato in caserma, spalleggiato dai compagni, fece eliminare gli scherzi tra di loro eccetto che verso gli ufficiali. Un giorno, uno di loro, ricevette un secchio di escreti sul capo. Scrisse dei documenti sulla vita militare, sulla sua inutilità, sul suo costo per lo stato e per le famiglie. Lui ci aveva rimesso un anno di paga e ne aveva fatti spendere a sua madre altrettanti. Organizzò con altri amici lo sciopero della fame per protestare contro la mensa.

Un giorno si scontrò persino con una ronda militare mentre era in libera uscita. Era al festival dell’Unità. Con alcuni amici se ne stava seduto a mangiare patatine fritte ad un tavolo, con la divisa in disordine. Passò la ronda. Il sergente che la comandava ordinò ad un militare:

-Mandami quel bersagliere!

Il giovane soldato si avvicinò ad eseguire l’ordine. Silvano l’anticipò:

-Dì al tuo sergente di venire al tavolo se vuole parlarmi.

Il sergente si avvicinò. Comandò:

-Alzati! Mettiti sull’attenti! Dammi il tuo tesserino di riconoscimento!

-Calma! Rispose Silvano. Siediti e mangia con me. Offro io!

-Ti ho detto di alzarti!

-Ed io ti ho risposo di sederti, se vuoi. Qui siamo in un luogo privato. Tra amici. Tu non hai nessun potere militare qui.

Il sergente mise mano alla pistola. La gente ed i militari che stavano seguendo la scena allontanarono e nascosero Silvano. Lo misero in un auto, accanto ad una donna bionda ed accompagnato in caserma.

Ogni volta che poteva uscire, rientrava tenendo sotto braccio “Lotta Continua”. Lo faceva apposta, perché sapeva che lo guardavano male. Un ufficiale suo amico, lo avvisò di stare attento perché stavano cercando di prenderlo in fallo. Lo volevano spedire in un carcere militare. Silvano si fece attento. Non ci riuscirono ad incastrarlo. O forse avevano capito che era goliardia. Ribellione, non politica.

Quando fu congedato non fu contento soltanto lui, ma anche i suoi diretti superiori. Il capitano gli disse:

-Sarai anche un brav’uomo, non discuto, ma come militare sei zero.

Silvano non rispose nulla. Al sergente che gli consegnava il foglio di congedo con la possibilità di richiamo chiese:

-Non posso stracciarlo?

 Tornato dagli amici, dopo aver letto il foglio commentò:

-Questi sono matti. Mi congedano come assaltatore. Come se io fossi così pazzo da gettarmi sotto i carri armati nemici. Stiano bene attenti. In caso di guerra ucciderei, certo, ma il mio diretto comandante.

In autostop, senza avere con sé neppure un ricordo tangibile di quella vita inutile, tornò a casa.