CAPITOLO QUARTO

Non volendo pesare troppo sul bilancio familiare, non volendo sentirsi dire da suo padre quando era ubriaco di essere un mantenuto, Silvano troncò a metà i suoi studi per lavorare. La notte, dopo il lavoro, continuava a studiare, non per una sistemazione, ma per se stesso, per il suo amore del sapere.

La domenica si recava a messa per non litigare con i suoi e per essere un bravo ragazzo. Così era considerato da chi lo conosceva.

Nell’attesa di un lavoro nuovo e definitivo che, la vicinanza del servizio militare non gli permetteva, aveva accettato di fare il pendolare. Partiva il mattino alle ore 6 con il camion del padrone e quando per lavoro si trovava nelle città vicine rientrava alle ore 19; quando era lontano rientrava il venerdì sera. Romano e Giuseppe erano padri di famiglia e suoi compagni di lavoro. Silvano non aveva nulla da rimproverare a questi uomini che lavoravano con lui e che insistevano per fargli tagliare i lunghi capelli neri. Anche quando una sera andarono a puttane, dopo che da settimane, la causa prima del lavoro e delle mestruazioni delle loro donne poi, non facevano l’amore, invitando Silvano.

Il giovane era tenuto in buona considerazione. Era onesto tanto che potevi dargli dei soldi senza averli contati; era anche un forte lavoratore. Per salvare questa faccia il giovane aveva taciuto i suoi due precedenti incontri con le donne di strada e rinunciò ancora una volta all’amore mercenario.

Sentì i loro discorsi mentre si recavano in auto, insieme:

-Ce n’è una alla seconda porta, diceva Giuseppe, che...

-La conosco, interruppe Romano. Si chiama Olga. Una brunetta sui trent’anni.

-Si deve essere quella. E tu non vieni? Rivolto a Silvano.

-No, io le donne non le pago.

-Non dirmi che non sei mai andato a puttane. Continuò Giuseppe.

Silvano non gli rispose. Sfogliò dei libri che aveva portato con sé; ma non leggeva, non ne aveva voglia. Pensava a quei due uomini, compagni di lavoro: amavano le loro mogli ed i loro bambini; lavoravano anche sotto l’acqua di marzo, il sole d’agosto, le nebbie autunnali ed il freddo invernale per offrire ai loro figli una vita più agiata ed andavano a puttane il venerdì e la messa la domenica. Ma che male c’era? Erano uomini onesti lo stesso. Erano lavoratori. Gli ritornavano in mente i discorsi fatti con Giuseppe, il più vecchio dei suoi compagni di lavoro, durante le brevi pause di lavoro:

-Quest’inverno non ci torno a lavorare! Quello passato ho pianto per il freddo; ho anche pianto la fatica. Ho quarantotto anni, ho fatto figli.

-E’ dura per me che sono giovane, va bene che ho sempre studiato, ma sono sano e forte. Che farai?

-Forse tornerò nella cava di pietre coti. Ho già avute delle offerte

-Quando smetti questo lavoro?

-Aspetto che mi aumentino le offerte e che tu parta per il militare. Io te lo dico...con te che lavori così forte e che ricevi una paga fissa, guadagno di più.

-Che mi consigli?

-Se fossi in te avviserei Romano che vuoi il cottimo. Io ho moglie e bambini, ma non m’importa che tu guadagni come me.

-Io aspetto di finire il militare, poi dopo forse continuerò a studiare.

-Ti conviene.

-Avevo intenzione, proseguì Silvano, di lavorare forte i primi anni per mettere da parte dei soldi per potermi costruire una casa. Farei un qualsiasi mestiere, anche il ladro o l’assassino di professione per realizzare questo sogno!

-Quando lavoravo dai frati, a Genova, raccontò Giuseppe, ho sentito che a fare i moli, lavorando sotto il mare, ci si poteva arricchire. Però è un lavoro molto pericoloso.

-A me non importa di morire. Ma raccontami...sei stato a Genova?

-Si, dai frati. Scavavo pozzi artesiani. Pagavano bene. Noi andiamo dove ci pagano di più, lo sai.

Scavavo da solo finché a 60-70 metri di profondità trovavo l’acqua.

-Tutto a badile e piccone?

-Erano trent’anni fa, e poi mi aiutavano i fratini a portare via la terra. Per me non conviene né lavorare troppo né faticare troppo. Non si conclude niente. Guarda me! Sono sempre come prima.

-Intanto tu possiedi una casa e della terra. I tuoi figli crescono bene.

-Non posso lamentarmi, però voglio che i miei figli non debbano vivere come io ho vissuto

-Io lavoro forte per questo, ora che sono giovane.

Mio padre ha ancora figli piccoli e siamo in tanti in famiglia. Io è come se partissi da zero.

-Non credere che cambi qualcosa. Oggi la vita è cara. Noi lavoriamo e lo stipendio è buono, ma non è poi così tanto come ti sembra. La vita è cara. C’è gente che guadagna di più lavorando meno. E’ gente che non produce, comanda, è raccomandata, è rappresentata al governo. E poi tu domani ti sposi e hai dei figli, allora non basta più. Sei senza casa, devi vivere in affitto; hai bisogno dell’auto, poi ci sono le tasse, il mangiare, il vestirsi e per te che sei giovane c’è anche il divertimento. No, non ti bastano!

-Lavorerà anche mia moglie.

-Può darsi che ti vada bene, ma non contarci troppo: ne inventano sempre una nuova per tenerci a lavorare! Domani forse toglieranno anche la pensione; se ti ammali e non hai soldi dovrai morire o accontentarti di quello che ti daranno. Ascolta me che sono vecchio e conosco come vanno le cose, tieni lontani i figli, almeno per un po’ d’anni. Ricordati inoltre che le donne la sera vogliono essere amate, se tu sei stanco e non puoi soddisfarle, se ne vanno. Nella breve pausa che ne seguì il vecchio saggio uomo esclamò:

-Guarda che donne!

Silvano si voltò seguendo la sua indicazione. Due belle donne stavano passeggiando. Indossavano minigonne, magliette molto aderenti lasciando intravedere ogni curva, ogni rilievo.

-Belle davvero! Replicò Silvano.

-Sono senza reggiseno, guarda! Continuò il vecchio. Ti andrebbero bene!

-Anche tu le porteresti a letto. Scherzò Silvano.

-Sono vecchio, ma le soddisferei meglio di molti giovani.

Gli replicò. Silvano rideva. Poi curvarono di nuovo la schiena al sole o all’acqua, a torso nudo o con l’impermeabile, a lavorare forte per niente; rovinandosi in anticipo la salute. Pagati lo erano, ma non c’era proporzione con la vita che erano costretti a vivere. Restavano sempre poveri. I sindacati facevano fatica ad ottenere, dai padroni, l’aumento della paga. Quando l’avevano ottenuta cresceva anche il costo della vita ed anche la fatica aumentava. E questa fatica annullava la mente: non capivano che impediva loro di pensare ad un mondo migliore e sul come ottenerlo. Queste cose Silvano le sapeva. Aveva ascoltato sua madre affermare:

-Quando avevo figli piccoli ho contratto anche i debiti per crescerli ed ora che mi possono aiutare se ne vanno!

I sindacati da parte loro non avevano ancora capito che l’economia era una matematica perfetta, universale e che era colpa degli stati e dei governi se quella era la situazione. Il sindacato poteva tuttalpiù cercare di eliminare le ingiustizie di divisione delle ricchezze all’interno dello stato, ma non facevano neanche quello. Miravano invece a governare lo stato stesso.

Silvano neppure lui era contento. Non gli bastava che il padrone fosse soddisfatto del lavoro che poteva fare.

Il caposquadra non si lamentava di Silvano. Lavorava forte e non si ammalava mai. Un giorno gli comunicò che avrebbe avuto un aumento di stipendio. Silvano lo disse alla madre e ne fu felice. Quel mese invece guadagnò di meno, e non perché avesse lavorato di meno, anzi. Non fu contento quel giorno e non ebbe voglia di lavorare. Ne parlò con Giuseppe e questi gli dette ragione. Gli consigliò:

-Smetti di fare questa vita tu che hai studiato!

Il caposquadra si scusò affermando che il lavoro fatto nel mese appena trascorso aveva richiesto più fatica e più tempo, ma che aveva anche reso di meno. Silvano non rispose nulla. A sentire Giuseppe attestare che avrebbe meritata di più per il lavoro che faceva, a sentire Romano, il caposquadra, promettergli un aumento di paga, si era convinto che l’avrebbe avuto. Ora questa storia della paga più bassa non riusciva a digerirla; correvano inoltre voci che il caposquadra avesse guadagnato di più. Consegnando lo stipendio alla madre le spiegò il fatto.

Lei, per consolarlo, gli assicurò che erano tanti lo stesso. Silvano si mise il cuore in pace pensando che avrebbe guadagnato di più la volta dopo.

Invece gli sconvolgimenti politici del paese, la crescita internazionale delle materie prime non gli dettero ragione. Si convinse così che lavorare forte era inutile. Considerò e dedusse di condurre un’inutile e distruttiva vita senza arrivare e senza concludere nulla. Gli sembrò di essere condannato a lavorare per mangiare e mangiare per lavorare più forte, senza mai cambiare la sua situazione in meglio, distruggendo i suoi sogni ed il suo fisico.

Aveva letto molto di politica in quei giorni, ma ormai neppure più quella lo interessava. Aveva capito, ne era convinto, che comandava il Dio denaro. Vedeva che suo padre, dopo trenta anni di lavoro, era ancora un povero uomo, mentre tanti altri arricchivano anche evadendo le tasse o rubando. Ed erano rispettati ed avvantaggiati in ogni occasione: sia nel trovare lavoro ai loro figli, sia presso i medici se era per la salute, sia presso le banche se era per un prestito e così via. Sapeva che, chi inventava le leggi, le inventava per risolvere sì uno stato di crisi, ma anche per lasciare le cose così com’erano sempre state: ingiuste! Di fronte a queste considerazioni cominciò a rifiutarsi di andare in chiesa la domenica a adorare lo stesso Dio di coloro che, per denaro, commettevano ingiustizie. Meditava anzi la rivoluzione. Non sapeva ancora che di lì a qualche tempo sarebbero sorte le Brigate Rosse. Per sua fortuna viveva di pensiero ed il pensiero non sempre era tramutato in azione. Continuò quindi la sua analisi senza entrare a far parte dei rivoluzionari quando questi fecero la loro comparsa.

Per la prima volta si recò a votare: era il referendum per l’abrogazione del divorzio. Votò per la non abrogazione: se due persone sono impossibilitate a vivere insieme è giusto che si possano lasciare, sosteneva nelle discussioni con gli amici.