CAPITOLO SECONDO

Sara, la donna giovane, si è maritata ed è andata a vivere nella casa di suo marito. Silvano non le porta rancori, non ricorda nulla. Va a scuola ed impara come un qualunque bambino. Non è cosciente di ciò che apprende, ma ha una buona memoria. La maestra, di cui si ricorda che aveva un’aria incantata rammenta che, durante i compiti in classe, la sorprendeva con lo sguardo fisso nel nulla) un giorno gli mise come compagno di banco Rocco, uno che riusciva meno facilmente nello studio, affinché lo aiutasse. Era bravo davvero e ancora oggi si ricorda di quel romano che si era bruciato volontariamente la mano per non essere riuscito ad assassinare il nemico della patria; si ricorda di Camillo, di Clelia e di moltissimi altri. Ricorda pure le illustrazioni del sillabario. Ma, ora che può esprimere un giudizio proprio, afferma che per lui, non valeva di certo la pena fare quello che quegli stupidi eroi avevano fatto; ed era del tutto inutile che glielo avessero insegnato. “Altre sono le cose necessarie da sapere!” Quell’anno prese un premio: un libro ed un salvadanaio nel quale deporre i pochissimi soldi che gli sarebbero capitati tra le mani. La società stava formando un nuovo figlio, faceva diventare uomo un bambino. Si era fatti molti amici a scuola; con loro giocava a biglie, a figurine, con i tappi dell’aranciata e della coca-cola. A volte rincasava con la divisa stracciata per aver litigato con loro. Un giorno, mentre con gli amici stuzzicava un cane, fu morsicato. Cercò, è vero, di scappare correndo su per le scale di una vecchia casa: fu morsicato proprio quando credeva d’avercela fatta, a cavalcioni di un cancello chiuso col catenaccio.

-E’ tutta colpa degli amici che mi hanno chiusa la porta della casa nella quale si erano rifugiati: avevo perso tempo per farmi aprire, ma quelli paurosi rimasero barricati. Raccontava. Si reputò lo stesso fortunato: il dottore, dopo avergli praticato l’antirabbica, gli permise di restare a casa da scuola per qualche giorno. Quando arrivò in casa la televisione fu un gran giorno: ora non doveva più andare al bar e pagare dieci lire per vedere Zorro, Rin tin tin. Non gli fu lo stesso permesso di fare tardi davanti al televisore, al massimo terminato Carosello. La sua vita era uguale alla vita delle galline: doveva andare a letto presto, quando scuriva e prepararsi per la scuola; il pomeriggio poteva giocare solo se prima aveva terminati i compiti.

A volte, o perché non voleva studiare o perché non andava a messa, rimaneva senza cena o senza televisione. Trascinato dagli amici e dalla voglia di giocare, scappava, senza avere svolto i compiti. Si recava a costruire dighe con i sassi, l’erba e l’argilla, a bagnarsi al torrente dalle acque cristalline, non ancora inquinate. La madre, più volte gli aveva proibito di bagnarsi e nuotare nelle pozze del torrente: “Prendi freddo e poi bagni a letto.” Silvano non l’ascoltava; lei non lo rincorreva: l’aspettava. Quando suonava, al campanile, l’Ave Maria, Silvano rientrava: aveva paura a rimanere ancora fuori di casa perché quell’ora era l’ora delle streghe, era l’ora che circolavano per la strada i cattivi a rapire i bambini disobbedienti.

Rincasato, la madre lo mandava a letto senza cena. Dopo, saliva con la bacchetta ricavata dai rami dei salici ad infliggergli il castigo. Silvano si raggomitolava sotto le coperte, proteggendosi con il cuscino, piangendo forte per finta, per non essere picchiato a lungo; i fratelli piangevano con lui. Anna, soddisfatta, sospendeva la punizione e scendeva in cucina. Era questo il momento che il padre, presa una scodella di minestra ed un pane, saliva dal figlio. Silvano non mangiava lo stesso. Così Anna veniva a saperlo, nonostante il padre gli avesse detto di non dirlo, trovando il mattino la scodella ed il pane sul comodino. Allo stesso modo si comportava lei quando era il marito a mandare a letto il figlio senza cena perché non lo aveva aiutato nei lavori di campagna. Non poche volte aveva pianto quando con il padre si recava sul monte a raccogliere funghi e castagne, carico al ritorno di legna più pesante del suo stesso peso; esortato dal padre a non piagnucolare. Non amava lavorare il fieno sotto il sole o correre a riunirlo in covoni al minimo accenno di temporale. Amava però giocare a nascondino, a scavalcarli dopo una breve rincorsa, facendo a gara con gli amici, ignorando le proteste del padre che vedeva disfatto il lavoro. A volte aiutava il padre nella raccolta del mais da dare alle galline. Gli piaceva scoprire com’erano cresciute le patate o le carote sotto terra; arrampicarsi sugli alberi, osservare i fiori, cacciare gli uccelli. Amava gareggiare a chi pescava più pesci con le mani con gli amici. E non una sola volta gli capitò di trovare sotto i sassi topi o coloratissime bisce d’acqua. Di notte, Silvano, quando si svegliava per fare pipì nel boccale, sognava che sotto il letto e sotto il comò c’erano dei mostri, ne aveva paura e bagnava a letto. Altre volte, accesa la luce, controllava, non vedendoli, prendeva coraggio, cautamente scendeva, faceva la pipi, poi di corsa si gettava sul letto. Quando bagnava le lenzuola, la madre lo sgridava, gli diceva che avrebbe informato gli amici cosicché l’avrebbero deriso. Siccome, le lenzuola bagnate, non poteva cambiarle tutti i giorni, le faceva asciugare sul balcone, al sole; così tutti potevano vedere una grande macchia gialla. Silvano provava vergogna, ma non era colpa sua se faceva la pipi a letto:

Perché la mamma non voleva capire?!

Al sentire la madre informare il marito: “Si dice in paese occorra fargli mangiare dei topi per farlo smettere di urinare a letto, “ sentiva lo schifo e si riprometteva di avere più coraggio. Terminò l’anno scolastico. Silvano fu contento perché era stato promosso, ma soprattutto perché avrebbe potuto di nuovo correre nei prati a giocare, a cacciare, a raccogliere i fiori da portare alla madre. Passavano gli anni, Silvano cresceva innocente ed incosciente. Quando una mattina la madre lo mandò a svegliare la sorella per dirle di prepararsi per la messa domenicale, toccò di nuovo la donna. Silvano salì le scale. La sorella dormiva. Dalla porta la chiamò, lei non rispose. Entrò. Le si avvicinò. Le fece solletico sotto le ascelle, lei ancora non si svegliava. Le tolse le coperte, lei neppure si mosse; le fece solletico ai piedi, invano. Senza pensarci le infilò una mano dentro le mutandine a farle solletico. Solo allora la sorella si svegliò. Non disse nulla. Sperò non se ne fosse accorta, invece l’indomani, quando non volle aiutarla a fare i compiti, gli urlò che avrebbe detto alla mamma che l’aveva toccata. Silvano, a sua volta, minacciò di picchiarla. Così nessuno ci pensò più. A 10 anni si sentiva un grande: poteva vedere i programmi televisivi a tarda ora e non era più picchiato. Nel frattempo operai e studenti scendevano in piazza. Era il 1968.Rivendicavano la libertà di vivere da uomini liberi, non costretti a chinare la testa davanti ai padroni, ai parroci, ai medici. Volevano contare di più, essere partecipi alle decisioni che avrebbero influito sulla loro vita. Silvano tutto questo non lo viveva: era troppo piccolo ed inconsapevole, ma avrebbero in ogni caso cambiato il suo modo di essere uomo. A tredici anni, sul finire della scuola, si sentì improvvisamente adulto, capì di essere un uomo e di essere guardato dalle ragazzine. La domenica con gli amici ora andava a ballare. Si era accorto che al mondo esistevano donne, le vedeva belle e lo attraevano. Di nascosto baciava le foto di alcune amiche con le quali aveva anche ballato, ricevute da un amico. Silvano provava invidia per i più grandi perché li vedeva andare in moto ed in auto in compagnia di ragazze; perché vedeva che erano tenuti in considerazione dagli adulti. Sognava di crescere in fretta. Avrebbe voluto già essere adulto. Alcune volte salito in camera della sorella, davanti allo specchio, si provò i reggiseni ed i collant della sorella. Si sentì ridicolo e non lo fece più. Aveva quattordici anni, sapeva di essere un uomo, la faceva ancora a letto, ma già sognava di possedere un’auto e le donne. Andava mal volentieri a Messa. Si era iscritto, consigliato dai professori che avevano convinto anche il padre e la madre, al liceo. I genitori, sebbene a malincuore per uno stipendio mancato, avevano acconsentito. Oltretutto suo padre, quell’anno, impegnandosi con la banca, aveva acquistato una cinquecento blu da usare per recarsi al lavoro; obbligato in questa scelta dalle nuove disposizioni di governo riguardo ai trasporti. Disposizioni che avevano portato alla soppressione del treno, sostituito da pullman privati, privandolo così della comodità degli orari ed aumentandogli la spesa. Francesco continuava comunque ad ubriacarsi. A volte diventava persino violento: volavano parole e piatti; la moglie nascondeva i coltelli e non fiatava. In quei giorni in famiglia regnava tanta tristezza e silenzio. Ascoltò sua madre confidargli dei tradimenti del marito; ascoltò che lo criticava di disinteressarsi dell’educazione dei figli; che l’accusava di essere una mantenuta; di spendergli tutti i soldi. Silvano non sapeva dire nulla; l’ascoltava in silenzio. “E’ stata educata per vivere così.” Pensava.