Aveva mantenuto la promessa fatta a se
stesso e non scriveva più. Non provava più il bisogno di dialogare con se
stesso per evitare inutili discussioni con gli altri; da tempo aveva rinunciato
a discutere, attorno ad un tavolo, davanti ad una birra, per avere la percezione
di non riuscire a farsi comprendere. Non gli andava di ripetere sempre le stesse
cose, ogni volta in modo diverso, in maniera la più semplice possibile e
logica.
La democrazia, era sua opinione, aveva
abbandonato progressivamente gli obiettivi democratici per trasformarsi, poco
alla volta, in un regime conservatore di un tipo di borghesia sempre più
selettiva in ricchezza e potenza.
Questi sovvertimenti d’ordine sociale
andavano di pari passo con la profonda trasformazione della scienza e della
tecnologia, ma ancor più avevano accelerato dopo il tonfo dell’Unione
Sovietica e dell’imminente realizzazione dell’Europa Unita.
L’evoluzione sociale, l’evoluzione
naturale, l’evoluzione politica basata sul valore dell’essere uomo, erano
ormai assoggettate alle ferree regole di un’economia di mercato diretta
secondo il volere di alcuni e di qualche potenza, nascondendosi dietro i
concetti della logica economica.
Tutto quanto stava determinando una
radicale trasformazione del costume e dell’immagine delle categorie sociali:
non essere ricchi è una colpa dell’individuo; essere stipendiati in funzioni
non direttive è ormai un certificato di povertà e d’emarginazione. Per
questo nessuno, se non per reale necessità di sopravvivenza, cercava
un’occupazione mal retribuita.
Era preferibile restare disoccupati a
carico della famiglia d’origine rinunciando a crescere una propria famiglia,
che condannarsi a rimanere immobile nella povertà.
I posti di lavoro, se non erano
soppressi e portati in paesi a basso costo di manodopera, erano occupati da
extracomunitari, la più parte dei quali non avendo nessuna intenzione di
integrarsi, sfruttavano la situazione: il misero stipendio per vivere in questa
società era lo stesso uno stipendio milionario per chi rimpatriava.
Le strade pullulavano di donne che si
vendevano a basso prezzo, un prezzo comunque più alto della retribuzione di una
qualsiasi operaia.
Ad ogni angolo di strada gente che
chiedeva carità. La stessa carità chiesta per via televisiva da scuole, asili,
università ospedali ed altro per continuare ad esistere.
La delinquenza spicciola aumentava.
Altra gente rifuggiva da tutto quanto cercando rifugio in nuove religioni che
miravano all’oblio di se stessi nell’attesa dell’apocalisse.
Leggendo i giornali, ascoltando
telegiornali e relazioni, Silvano notava le contraddizioni delle cifre ufficiali
a creare confusione, a nascondere il vero volto della nuova società.
Silvano le metteva in evidenza in ogni
discussione. Ma era difficile, troppo difficile, complicato comunicare con le
persone che ragionavano mettendo in ogni discussione non la logica delle cose,
ma soltanto il proprio individuale piccolo egoismo. Questa era stata la molla
che gli aveva scaturito il bisogno di scrivere. Deluso anche da chi di cultura
se ne doveva intendere, ci aveva lucidamente rinunciato. Ma il bisogno di dire,
di parlare, di comunicare, di capire, di trovare, si era tramutato in pittura.
Ed usava la pittura come semplice
linguaggio di comunicazione, alla maniera dei primitivi.
Anche in questo campo si scontrò con i
detentori del potere. I critici ed i galleristi da lui contattati volevano nuovi
materiali od un nome già famoso.
A Silvano la ricerca di nuovi materiali
non interessava in quanto erano i chimici gli esperti della materia. Era inoltre
convinto che, se anche ogni altro materiale fosse colore e forma, la pittura era
caratterizzata dal fatto che usando il solo colore poteva dare forma e
significato.
Ogni altra ricerca era ormai inutile:
la forma anche in geometria si dissolveva ed il colore non era altro che onda,
vibrazione.
I quadri, ispirati alcuni dalla natura,
altri di soggetto metafisico, vendevano bene: aveva ottenuto, al di là d’ogni
previsione, un mercato ed una quotazione. Li avrebbe voluti trattenere tutti per
sé: non gli andava che i suoi pensieri fossero appesi a qualche parete di
qualche casa senza che nessuno sapesse quanto gli erano costati in vita e in
tempo, senza che inspirassero delle riflessioni di là dal loro valore estetico.
Comunque gli permettevano di vivere e
di fare crescere il figlio.
Aveva smesso di scrivere, aveva
rinunciato a pensare al senso del vivere e di combattere per una società
migliore. Non credeva più nelle rivoluzioni, non credeva più nella necessità
d’essere bravi per avere un ruolo nella società, non credeva più neppure in
Dio.
Camminava in bilico tra una vita
assurda ed una vita quotidiana non pensata. Avrebbe accettato qualsiasi
conclusione della vita: l’inferno, il paradiso, il nulla, l’inutilità della
vita stessa, dell’essere vissuto. Non viveva né per Dio né per il Diavolo, né
per la società né per se stesso: viveva e basta! Viveva trascinando suo
figlio. Solitario e schivo.
Non rispondeva agli inviti che riceveva
per le sue mostre.
Di tanto in tanto, spinto dai suoi
istinti sessuali, si recava in città a conoscere le donne venute dall’Est che
si vendevano, costrette o no, per guadagnare. Usava il preservativo per non
ammalarsi di AIDS, le sceglieva ogni volta giovane e diversa, per essere sicuro
di non innamorarsi, non voleva più impegnarsi in una relazione duratura.
La società era cambiata da quando lui
era bambino, diversa da come l’aveva sognata. Non gli piaceva, ma non voleva
cambiarla, non più, l’accettava così com’era. Certo aveva paura di morire,
non si sentiva preparato a morire; aveva paura delle malattie, aveva un figlio
da crescere. Gli avrebbe lasciato almeno la sua ricchezza, ricchezza che gli
avrebbe permesso di scegliersi la vita senza essere costretto a vendersi o a
fare dei compromessi.
Di Mirelle non aveva saputo più nulla
dal giorno che aveva firmato il divorzio. Non si era più fatta sentire né
aveva mai chiesto notizie del figlio. Probabilmente si era rifatta un’altra
vita, aveva altri figli.
Veniva a dargli una mano ad accudire al
figlio la sorella. Ella vedeva in Luca il bambino che era stata costretta ad
abortire per paura delle malformazioni, ma la scelta le aveva lasciato dei
rimorsi dai quali non riusciva a sottrarsi.
Non riusciva a dimenticare, anche se
aveva chiesto, in confessione, perdono a Dio.
Non aveva più avuti figli, anche se
non prendeva nessuna precauzione per evitarli.
I professori ai quali si era rivolta le
avevano detto che da un punto di vista strettamente fisico-riproduttivo era
perfetta, ma i figli non erano mai arrivati ed ormai non ci sperava più. Era la
colpa che doveva pagare.
Aveva accettato volentieri l’invito
del fratello ad occuparsi del nipote e così fu per quattro anni, sino al giorno
cioè che rimase, tra la sorpresa generale, incinta.
Fu sostituita da Luciana, il suo primo
amore, in questo compito. Capitò che la portò a letto, ma le fece capire,
nonostante fosse stato bene, che non l’avrebbe sposata, al massimo, se le
stava bene, sarebbe convissuto per qualche tempo.
Luciana tacitamente accettò la
situazione, sperando che il tempo cambiasse la situazione secondo i suoi
desideri.
Lei, Silvano, l’aveva amato davvero,
anche se ne aveva avuto paura. Ora anche lei si era fatte le sue esperienze.
Dopo Silvano era uscita con altri uomini, ma li aveva sempre lasciati. Credette
un giorno di avere trovato il suo uomo ideale. Stava bene insieme, aveva
ricominciato a fare progetti, senza timore. Con lui aveva già vista la casa
nella quale sarebbe andata a vivere. Il destino decise diversamente: il suo
fidanzato morì in un incidente d’auto. Lei soffrì molto.
Cominciò a soffrire di mal di schiena.
Tutti gli esami strumentali dimostrarono che a livello fisico non c’era una
causa che dimostrasse la sua malattia. Sospettando la somatizzazione della
malattia esistenziale, entrò persino in cura da uno psicologo.
Non una sola volta fu sull’orlo del
suicidio, si sentiva fallita, una strega incapace di amare, una donna fatale che
uccideva l’uomo che amava.
Fu sottoposta parecchie volte alla cura
del sonno senza alcun risultato positivo.
Anche la religione non le fu d’aiuto,
nonostante ogni giorno si recasse sulla tomba del suo uomo a portargli dei fiori
di campo e pregare.
L’informazione ricevuta durante la
crescita le era stata imposta, non ragionata, non accettata, a volte
contraddittoria.
Si era gettata nel lavoro per
dimenticare la sua sfortunata vita. Poi la malattia le aveva imposto la
moderazione. Seguendo i suggerimenti di un nuovo profeta, faceva lunghe
camminate cercando luoghi non ancora contaminati e tranquilli, respirando
profondamente ed immergendosi nella natura.
Fu durante una di queste passeggiate
che rivide Silvano.
Era una tiepida giornata di primavera,
sui monti vicini c’era ancora la neve. Luciana camminava osservando i prati
che si stavano rinverdendo: qualche primula, dei campanellini, degli ellebori
bianchi e verdi, degli anemoni viola che spuntavano qua e là negli angoli più
esposti al sole. Di tanto in tanto ne raccoglieva alcuni.
Sugli alberi erano già spuntate le
gemme.
Lo vide che stava dipingendo all’aria
aperta un paesaggio. Lo riconobbe, non sapeva che era rientrato in paese. Ormai
non ascoltava più le chiacchiere, non era più la donna allegra e spensierata
sempre circondata da amici. Anche lei si era fatta solitaria, forse un poco
stanca della vita che gli aveva sempre impedito d’essere felice.
Poco lontano un bambino giocava tra
l’erba, divertendosi di tanto in tanto a strappare i petali dai fiori.
Si avvicinò curiosa e timorosa alla
rete di recinzione, vicino al cancello d’entrata.
-Tuo figlio? S’informò.
-Luciana?! Ciao...dai entra. Il
cancello non è chiuso a chiave.
-Non voglio disturbare.
-Nessun disturbo, ti rivedo volentieri.
Disse riponendo i pennelli.
-Non sapevo che dipingevi. Sei bravo.
-Me la cavo e mi permette di vivere. Ma
dimmi di te...sei sposata? Stai bene? Hai dei figli?
-Non ho figli...non sono neppure
sposata. Il mio uomo ha avuto un incidente d’auto. E’ morto. Gli rispose. Le
lacrime brillarono sui suoi occhi al ricordo.
-L’amavi molto.
-Avevamo sogni da realizzare.
Il pianto improvviso di Luca, caduto
per terra, l’interruppe nei loro ricordi.
Luciana fu lesta a prenderselo in
braccio. Notò che nella caduta un ginocchio si era ferito. Lo lavò con la
saliva. Disse:
-Non è nulla, è solo un graffio. Come
si chiama?
-Luca.
-Ciao Luca, sono un’amica di tuo papà.
Vieni con me a fare un giro? Posso portarlo con me? Chiese prendendolo per mano.
Silvano annuì. Mentre la donna si
allontanava con suo figlio le disse:
-Vi aspetto per l’ora di pranzo.
Silvano non era molto pratico di
cucina. A suo figlio preparava solitamente dei pranzi già preconfezionati, al
massimo le patatine fritte, le bistecche, delle uova.
Quel giorno preparò invece della fesa
di maiale, che teneva nel congelatore, insaporita con vino bianco secco, curry e
patatine fritte.
Era mezzogiorno passato da pochi minuti
quando rientrarono schiamazzando e sorridenti, il fiato corto per avere fatto
l’ultimo pezzo di strada di corsa.
-Sono arrivato primo. Disse il piccolo
tutto felice. Paghi pegno!
-Che avete scommesso?
-Un bacio!
Silvano stette allo scherzo e si lasciò
baciare. Si aspettava un bacio sulla guancia, invece Luciana, arditamente lo
baciò sulla bocca.
Silvano accettò la sfida e
contraccambiò il bacio.
Il piccolo Luca tirò i calzoni del suo
papà a dirgli che doveva sistemare i fiori che aveva raccolti e che aveva fame.
Silvano, lasciata la bocca di Luciana,
prese i fiori dal figlio, riempì un bicchiere con acqua, creò una composizione
e li dispose sul tavolo apparecchiato.
-Ti fermi a mangiare con noi! Disse a
Luciana con tono che non ammetteva una negazione. Ho preparato un piatto che è
la mia specialità.
Luciana si lasciò facilmente
convincere, non aspettava altro. Non aveva nessuna voglia di rincasare a
pranzare sola.
-Buono disse, dopo averlo assaggiato.
-Vero. Confermo il figlio.
Durante il pranzo, Luciana rivelò i
suoi pensieri. Silvano le confidò di sentirsi la responsabilità di crescere un
figlio senza sapere che valori trasmettergli e non conoscendo nulla della
scienza dell’educazione.
Saggiamente, seguendo ciò che aveva
appreso dalla sua esperienza di vita e dall’educazione ricevuta, la donna gli
rispose che la scelta della vita da vivere sarebbe in ogni caso stata del
figlio. Lui non doveva preoccuparsi tanto, ma soltanto metterlo nella condizione
di saper decidere.
Al termine del pranzo silvano preparò
il caffè. Dopo averlo bevuto iniziò a sparecchiare, si preparò a lavare.
-Lascia fare a me. Disse la donna.
-No! Tu sei stata invitata. Se proprio
vuoi metti a letto il Luca.
Luciana si fece indicare dal bambino la
cameretta e lo accompagnò. Il bambino non voleva dormire. Disse:
-Il mio papà mi racconta sempre delle
storie. Tu le conosci le storie?
-Certo che le conosco.
-Me ne racconti una?
-Tutte le storie cominciano con “
c’era una volta”, iniziò a raccontare Silvana, invece io ti voglio
raccontare una storia vera.
Tanto tempo fa, molto tempo fa, Maria e
Giuseppe si stavano recando a Gerusalemme. Maria aspettava un bambino. Giuseppe
non era il suo vero papà, il papà vero nessuno lo conosceva.
-Perché andavano a Gerusalemme? Chi
era il suo papà? Chiese incuriosito Luca.
A Gerusalemme comandava re Erode, un re
cattivo. Voleva sapere quanti erano i suoi sudditi e aveva comandato che tutti
si recassero a Gerusalemme a segnarsi.
Così anche Maria e Giuseppe a dorso di
un asinello si recarono in città.
-Mio papà non la conosce questa
storia. La interruppe Luca. Non me l’ha mai raccontata, però mi piace.
-Chiudi gli occhietti ed
ascolta...mentre erano in aperta campagna il bambino che Maria portava nella
pancia volle nascere. Giuseppe chiese ai vari alberghi se avevano una stanza. Di
stanze ce n’erano, ma loro erano poveri, non avevano soldi per pagare.
Trovarono però rifugio in una stalla. La notte improvvisamente fu illuminata da
una nuova stella, mai vista prima in cielo...aveva una coda tutta d’oro...si
posò sulla stalla. I pastori meravigliati la seguirono. Entrati nella stalla
videro un piccolo bambino che piangeva. L’asino che aveva portato sua madre lo
riscaldava col suo fiato.
Luca si era addormentato. Luciana lo
lasciò per raggiungere Silvano, che terminato di sistemare la cucina aveva
acceso il caminetto.
-Bevi qualcosa?
-No, perdo subito la testa se bevo, poi
non so più quello che mi faccio.
-Ma dai! C’è del limoncello, una
volta ti piaceva.
-Ricordi ancora i miei gusti?
-Ricordo anche molte altre cose di noi
e come hai visto vivo nella casa che avevamo sognato insieme.
-Che vuoi dire?
-Nulla. Ricordavo i nostri sogni
d’adolescenti.
-Mi piacerebbe guardarti mentre
dipingi. Chiese cambiando discorso. Non ti disturberò.
-D’accordo, anche se è la prima
volta che permetto a qualcuno di guardarmi mentre lavoro. Non chiedermi di farti
il ritratto, non ne sono capace. I miei dipinti non copiano un mondo reale, lo
inventano.
Luciana si sedette accanto al fuoco.
Silvano davanti al cavalletto iniziò a dipingere. Rappresentò usando dei
manichini alla moda il peccato di Adamo ed Eva. Li colorò con i colori del
fuoco del camino, il verde del prato, l’ocra della terra e l’azzurro del
cielo filtrato dalle vetrate.
Silvana ravvivato il fuoco le si gli
portò alle spalle.
-Che significa la rete che avvolge il
cielo? S’interessò.
-E’ il mio modo di rappresentare la
condizione umana di creatura, racchiusa dentro un universo dal quale non si esce
che con la morte...come vedi Adamo ed Eva peccano insieme appena escano dal
fango di cui sono fatti. Le spiegò deponendo i pennelli e la tavolozza dei
colori.
-Interessante.
-Questi sono i quadri che dipingo per
me, non sono in vendita.
-Perché?
-Non sarebbero compresi e non avrebbero
mercato. La gente preferisce i paesaggi, la natura morta, il ritratto personale.
Io la accontento, ma la mia anima non la metto in vendita.
-Non ti conoscevo così.
-Molte cose sono cambiate. Non sono più
il ragazzino che non conosceva la vita e che era pieno di ideali di libertà
giustizia ed uguaglianza. Ora so cosa voglio e cosa chiedono e non sono disposto
a tutto.
-Mi piacerebbe conoscerti più a fondo.
Gli confidò avvicinandosi.
Silvano l’attirò improvvisamente a sé,
la baciò contraccambiato.
La sua mano le accarezzò la nuca, poi
giù per la schiena ai glutei. Silvana lo lasciò fare. Sempre baciandola risalì
a modellare i seni, a giocare.
Non sentendo nessuna resistenza da
parte della donna scivolò con le mani sotto la maglietta a sentire il calore
della pelle calda e nuda delle cosce. Luciana a sua volta penetrò con le mani
sotto il maglione a carezzargli il torace.
Scivolarono piano sul pavimento ad amarsi.