CAPITOLO XIII

Aveva mantenuto la promessa fatta a se stesso e non scriveva più. Non provava più il bisogno di dialogare con se stesso per evitare inutili discussioni con gli altri; da tempo aveva rinunciato a discutere, attorno ad un tavolo, davanti ad una birra, per avere la percezione di non riuscire a farsi comprendere. Non gli andava di ripetere sempre le stesse cose, ogni volta in modo diverso, in maniera la più semplice possibile e logica.

La democrazia, era sua opinione, aveva abbandonato progressivamente gli obiettivi democratici per trasformarsi, poco alla volta, in un regime conservatore di un tipo di borghesia sempre più selettiva in ricchezza e potenza.

Questi sovvertimenti d’ordine sociale andavano di pari passo con la profonda trasformazione della scienza e della tecnologia, ma ancor più avevano accelerato dopo il tonfo dell’Unione Sovietica e dell’imminente realizzazione dell’Europa Unita.

L’evoluzione sociale, l’evoluzione naturale, l’evoluzione politica basata sul valore dell’essere uomo, erano ormai assoggettate alle ferree regole di un’economia di mercato diretta secondo il volere di alcuni e di qualche potenza, nascondendosi dietro i concetti della logica economica.

Tutto quanto stava determinando una radicale trasformazione del costume e dell’immagine delle categorie sociali: non essere ricchi è una colpa dell’individuo; essere stipendiati in funzioni non direttive è ormai un certificato di povertà e d’emarginazione. Per questo nessuno, se non per reale necessità di sopravvivenza, cercava un’occupazione mal retribuita.

Era preferibile restare disoccupati a carico della famiglia d’origine rinunciando a crescere una propria famiglia, che condannarsi a rimanere immobile nella povertà.

I posti di lavoro, se non erano soppressi e portati in paesi a basso costo di manodopera, erano occupati da extracomunitari, la più parte dei quali non avendo nessuna intenzione di integrarsi, sfruttavano la situazione: il misero stipendio per vivere in questa società era lo stesso uno stipendio milionario per chi rimpatriava.

Le strade pullulavano di donne che si vendevano a basso prezzo, un prezzo comunque più alto della retribuzione di una qualsiasi operaia.

Ad ogni angolo di strada gente che chiedeva carità. La stessa carità chiesta per via televisiva da scuole, asili, università ospedali ed altro per continuare ad esistere.

La delinquenza spicciola aumentava. Altra gente rifuggiva da tutto quanto cercando rifugio in nuove religioni che miravano all’oblio di se stessi nell’attesa dell’apocalisse.

Leggendo i giornali, ascoltando telegiornali e relazioni, Silvano notava le contraddizioni delle cifre ufficiali a creare confusione, a nascondere il vero volto della nuova società.

Silvano le metteva in evidenza in ogni discussione. Ma era difficile, troppo difficile, complicato comunicare con le persone che ragionavano mettendo in ogni discussione non la logica delle cose, ma soltanto il proprio individuale piccolo egoismo. Questa era stata la molla che gli aveva scaturito il bisogno di scrivere. Deluso anche da chi di cultura se ne doveva intendere, ci aveva lucidamente rinunciato. Ma il bisogno di dire, di parlare, di comunicare, di capire, di trovare, si era tramutato in pittura.

Ed usava la pittura come semplice linguaggio di comunicazione, alla maniera dei primitivi.

Anche in questo campo si scontrò con i detentori del potere. I critici ed i galleristi da lui contattati volevano nuovi materiali od un nome già famoso.

A Silvano la ricerca di nuovi materiali non interessava in quanto erano i chimici gli esperti della materia. Era inoltre convinto che, se anche ogni altro materiale fosse colore e forma, la pittura era caratterizzata dal fatto che usando il solo colore poteva dare forma e significato.

Ogni altra ricerca era ormai inutile: la forma anche in geometria si dissolveva ed il colore non era altro che onda, vibrazione.

I quadri, ispirati alcuni dalla natura, altri di soggetto metafisico, vendevano bene: aveva ottenuto, al di là d’ogni previsione, un mercato ed una quotazione. Li avrebbe voluti trattenere tutti per sé: non gli andava che i suoi pensieri fossero appesi a qualche parete di qualche casa senza che nessuno sapesse quanto gli erano costati in vita e in tempo, senza che inspirassero delle riflessioni di là dal loro valore estetico.

Comunque gli permettevano di vivere e di fare crescere il figlio.

Aveva smesso di scrivere, aveva rinunciato a pensare al senso del vivere e di combattere per una società migliore. Non credeva più nelle rivoluzioni, non credeva più nella necessità d’essere bravi per avere un ruolo nella società, non credeva più neppure in Dio.

Camminava in bilico tra una vita assurda ed una vita quotidiana non pensata. Avrebbe accettato qualsiasi conclusione della vita: l’inferno, il paradiso, il nulla, l’inutilità della vita stessa, dell’essere vissuto. Non viveva né per Dio né per il Diavolo, né per la società né per se stesso: viveva e basta! Viveva trascinando suo figlio. Solitario e schivo.

Non rispondeva agli inviti che riceveva per le sue mostre.

Di tanto in tanto, spinto dai suoi istinti sessuali, si recava in città a conoscere le donne venute dall’Est che si vendevano, costrette o no, per guadagnare. Usava il preservativo per non ammalarsi di AIDS, le sceglieva ogni volta giovane e diversa, per essere sicuro di non innamorarsi, non voleva più impegnarsi in una relazione duratura.

La società era cambiata da quando lui era bambino, diversa da come l’aveva sognata. Non gli piaceva, ma non voleva cambiarla, non più, l’accettava così com’era. Certo aveva paura di morire, non si sentiva preparato a morire; aveva paura delle malattie, aveva un figlio da crescere. Gli avrebbe lasciato almeno la sua ricchezza, ricchezza che gli avrebbe permesso di scegliersi la vita senza essere costretto a vendersi o a fare dei compromessi.

Di Mirelle non aveva saputo più nulla dal giorno che aveva firmato il divorzio. Non si era più fatta sentire né aveva mai chiesto notizie del figlio. Probabilmente si era rifatta un’altra vita, aveva altri figli.

Veniva a dargli una mano ad accudire al figlio la sorella. Ella vedeva in Luca il bambino che era stata costretta ad abortire per paura delle malformazioni, ma la scelta le aveva lasciato dei rimorsi dai quali non riusciva a sottrarsi.

Non riusciva a dimenticare, anche se aveva chiesto, in confessione, perdono a Dio.

Non aveva più avuti figli, anche se non prendeva nessuna precauzione per evitarli.

I professori ai quali si era rivolta le avevano detto che da un punto di vista strettamente fisico-riproduttivo era perfetta, ma i figli non erano mai arrivati ed ormai non ci sperava più. Era la colpa che doveva pagare.

Aveva accettato volentieri l’invito del fratello ad occuparsi del nipote e così fu per quattro anni, sino al giorno cioè che rimase, tra la sorpresa generale, incinta.

Fu sostituita da Luciana, il suo primo amore, in questo compito. Capitò che la portò a letto, ma le fece capire, nonostante fosse stato bene, che non l’avrebbe sposata, al massimo, se le stava bene, sarebbe convissuto per qualche tempo.

Luciana tacitamente accettò la situazione, sperando che il tempo cambiasse la situazione secondo i suoi desideri.

Lei, Silvano, l’aveva amato davvero, anche se ne aveva avuto paura. Ora anche lei si era fatte le sue esperienze. Dopo Silvano era uscita con altri uomini, ma li aveva sempre lasciati. Credette un giorno di avere trovato il suo uomo ideale. Stava bene insieme, aveva ricominciato a fare progetti, senza timore. Con lui aveva già vista la casa nella quale sarebbe andata a vivere. Il destino decise diversamente: il suo fidanzato morì in un incidente d’auto. Lei soffrì molto.

Cominciò a soffrire di mal di schiena. Tutti gli esami strumentali dimostrarono che a livello fisico non c’era una causa che dimostrasse la sua malattia. Sospettando la somatizzazione della malattia esistenziale, entrò persino in cura da uno psicologo.

Non una sola volta fu sull’orlo del suicidio, si sentiva fallita, una strega incapace di amare, una donna fatale che uccideva l’uomo che amava.

Fu sottoposta parecchie volte alla cura del sonno senza alcun risultato positivo.

Anche la religione non le fu d’aiuto, nonostante ogni giorno si recasse sulla tomba del suo uomo a portargli dei fiori di campo e pregare.

L’informazione ricevuta durante la crescita le era stata imposta, non ragionata, non accettata, a volte contraddittoria.

Si era gettata nel lavoro per dimenticare la sua sfortunata vita. Poi la malattia le aveva imposto la moderazione. Seguendo i suggerimenti di un nuovo profeta, faceva lunghe camminate cercando luoghi non ancora contaminati e tranquilli, respirando profondamente ed immergendosi nella natura.

Fu durante una di queste passeggiate che rivide Silvano.

Era una tiepida giornata di primavera, sui monti vicini c’era ancora la neve. Luciana camminava osservando i prati che si stavano rinverdendo: qualche primula, dei campanellini, degli ellebori bianchi e verdi, degli anemoni viola che spuntavano qua e là negli angoli più esposti al sole. Di tanto in tanto ne raccoglieva alcuni.

Sugli alberi erano già spuntate le gemme.

Lo vide che stava dipingendo all’aria aperta un paesaggio. Lo riconobbe, non sapeva che era rientrato in paese. Ormai non ascoltava più le chiacchiere, non era più la donna allegra e spensierata sempre circondata da amici. Anche lei si era fatta solitaria, forse un poco stanca della vita che gli aveva sempre impedito d’essere felice.

Poco lontano un bambino giocava tra l’erba, divertendosi di tanto in tanto a strappare i petali dai fiori.

Si avvicinò curiosa e timorosa alla rete di recinzione, vicino al cancello d’entrata.

-Tuo figlio? S’informò.

-Luciana?! Ciao...dai entra. Il cancello non è chiuso a chiave.

-Non voglio disturbare.

-Nessun disturbo, ti rivedo volentieri. Disse riponendo i pennelli.

-Non sapevo che dipingevi. Sei bravo.

-Me la cavo e mi permette di vivere. Ma dimmi di te...sei sposata? Stai bene? Hai dei figli?

-Non ho figli...non sono neppure sposata. Il mio uomo ha avuto un incidente d’auto. E’ morto. Gli rispose. Le lacrime brillarono sui suoi occhi al ricordo.

-L’amavi molto.

-Avevamo sogni da realizzare.

Il pianto improvviso di Luca, caduto per terra, l’interruppe nei loro ricordi.

Luciana fu lesta a prenderselo in braccio. Notò che nella caduta un ginocchio si era ferito. Lo lavò con la saliva. Disse:

-Non è nulla, è solo un graffio. Come si chiama?

-Luca.

-Ciao Luca, sono un’amica di tuo papà. Vieni con me a fare un giro? Posso portarlo con me? Chiese prendendolo per mano.

Silvano annuì. Mentre la donna si allontanava con suo figlio le disse:

-Vi aspetto per l’ora di pranzo.

Silvano non era molto pratico di cucina. A suo figlio preparava solitamente dei pranzi già preconfezionati, al massimo le patatine fritte, le bistecche, delle uova.

Quel giorno preparò invece della fesa di maiale, che teneva nel congelatore, insaporita con vino bianco secco, curry e patatine fritte.

Era mezzogiorno passato da pochi minuti quando rientrarono schiamazzando e sorridenti, il fiato corto per avere fatto l’ultimo pezzo di strada di corsa.

-Sono arrivato primo. Disse il piccolo tutto felice. Paghi pegno!

-Che avete scommesso?

-Un bacio!

Silvano stette allo scherzo e si lasciò baciare. Si aspettava un bacio sulla guancia, invece Luciana, arditamente lo baciò sulla bocca.

Silvano accettò la sfida e contraccambiò il bacio.

Il piccolo Luca tirò i calzoni del suo papà a dirgli che doveva sistemare i fiori che aveva raccolti e che aveva fame.

Silvano, lasciata la bocca di Luciana, prese i fiori dal figlio, riempì un bicchiere con acqua, creò una composizione e li dispose sul tavolo apparecchiato.

-Ti fermi a mangiare con noi! Disse a Luciana con tono che non ammetteva una negazione. Ho preparato un piatto che è la mia specialità.

Luciana si lasciò facilmente convincere, non aspettava altro. Non aveva nessuna voglia di rincasare a pranzare sola.

-Buono disse, dopo averlo assaggiato.

-Vero. Confermo il figlio.

Durante il pranzo, Luciana rivelò i suoi pensieri. Silvano le confidò di sentirsi la responsabilità di crescere un figlio senza sapere che valori trasmettergli e non conoscendo nulla della scienza dell’educazione.

Saggiamente, seguendo ciò che aveva appreso dalla sua esperienza di vita e dall’educazione ricevuta, la donna gli rispose che la scelta della vita da vivere sarebbe in ogni caso stata del figlio. Lui non doveva preoccuparsi tanto, ma soltanto metterlo nella condizione di saper decidere.

Al termine del pranzo silvano preparò il caffè. Dopo averlo bevuto iniziò a sparecchiare, si preparò a lavare.

-Lascia fare a me. Disse la donna.

-No! Tu sei stata invitata. Se proprio vuoi metti a letto il Luca.

Luciana si fece indicare dal bambino la cameretta e lo accompagnò. Il bambino non voleva dormire. Disse:

-Il mio papà mi racconta sempre delle storie. Tu le conosci le storie?

-Certo che le conosco.

-Me ne racconti una?

-Tutte le storie cominciano con “ c’era una volta”, iniziò a raccontare Silvana, invece io ti voglio raccontare una storia vera.

Tanto tempo fa, molto tempo fa, Maria e Giuseppe si stavano recando a Gerusalemme. Maria aspettava un bambino. Giuseppe non era il suo vero papà, il papà vero nessuno lo conosceva.

-Perché andavano a Gerusalemme? Chi era il suo papà? Chiese incuriosito Luca.

A Gerusalemme comandava re Erode, un re cattivo. Voleva sapere quanti erano i suoi sudditi e aveva comandato che tutti si recassero a Gerusalemme a segnarsi.

Così anche Maria e Giuseppe a dorso di un asinello si recarono in città.

-Mio papà non la conosce questa storia. La interruppe Luca. Non me l’ha mai raccontata, però mi piace.

-Chiudi gli occhietti ed ascolta...mentre erano in aperta campagna il bambino che Maria portava nella pancia volle nascere. Giuseppe chiese ai vari alberghi se avevano una stanza. Di stanze ce n’erano, ma loro erano poveri, non avevano soldi per pagare. Trovarono però rifugio in una stalla. La notte improvvisamente fu illuminata da una nuova stella, mai vista prima in cielo...aveva una coda tutta d’oro...si posò sulla stalla. I pastori meravigliati la seguirono. Entrati nella stalla videro un piccolo bambino che piangeva. L’asino che aveva portato sua madre lo riscaldava col suo fiato.

Luca si era addormentato. Luciana lo lasciò per raggiungere Silvano, che terminato di sistemare la cucina aveva acceso il caminetto.

-Bevi qualcosa?

-No, perdo subito la testa se bevo, poi non so più quello che mi faccio.

-Ma dai! C’è del limoncello, una volta ti piaceva.

-Ricordi ancora i miei gusti?

-Ricordo anche molte altre cose di noi e come hai visto vivo nella casa che avevamo sognato insieme.

-Che vuoi dire?

-Nulla. Ricordavo i nostri sogni d’adolescenti.

-Mi piacerebbe guardarti mentre dipingi. Chiese cambiando discorso. Non ti disturberò.

-D’accordo, anche se è la prima volta che permetto a qualcuno di guardarmi mentre lavoro. Non chiedermi di farti il ritratto, non ne sono capace. I miei dipinti non copiano un mondo reale, lo inventano.

Luciana si sedette accanto al fuoco. Silvano davanti al cavalletto iniziò a dipingere. Rappresentò usando dei manichini alla moda il peccato di Adamo ed Eva. Li colorò con i colori del fuoco del camino, il verde del prato, l’ocra della terra e l’azzurro del cielo filtrato dalle vetrate.

Silvana ravvivato il fuoco le si gli portò alle spalle.

-Che significa la rete che avvolge il cielo? S’interessò.

-E’ il mio modo di rappresentare la condizione umana di creatura, racchiusa dentro un universo dal quale non si esce che con la morte...come vedi Adamo ed Eva peccano insieme appena escano dal fango di cui sono fatti. Le spiegò deponendo i pennelli e la tavolozza dei colori.

-Interessante.

-Questi sono i quadri che dipingo per me, non sono in vendita.

-Perché?

-Non sarebbero compresi e non avrebbero mercato. La gente preferisce i paesaggi, la natura morta, il ritratto personale. Io la accontento, ma la mia anima non la metto in vendita.

-Non ti conoscevo così.

-Molte cose sono cambiate. Non sono più il ragazzino che non conosceva la vita e che era pieno di ideali di libertà giustizia ed uguaglianza. Ora so cosa voglio e cosa chiedono e non sono disposto a tutto.

-Mi piacerebbe conoscerti più a fondo. Gli confidò avvicinandosi.

Silvano l’attirò improvvisamente a sé, la baciò contraccambiato.

La sua mano le accarezzò la nuca, poi giù per la schiena ai glutei. Silvana lo lasciò fare. Sempre baciandola risalì a modellare i seni, a giocare.

Non sentendo nessuna resistenza da parte della donna scivolò con le mani sotto la maglietta a sentire il calore della pelle calda e nuda delle cosce. Luciana a sua volta penetrò con le mani sotto il maglione a carezzargli il torace.

Scivolarono piano sul pavimento ad amarsi.