CAPITOLO XII
Silvano era ritornato, di nuovo, al
paese dove era nato, portando con sé Luca, per sempre. Aveva acquistato una
vecchia casa isolata, circondata da prati e da boschi. L’aveva fatta
sistemare. Quando non dipingeva o scriveva, camminava per i sentieri del bosco,
riflettendo sulla vita o giocando con Luca.
Aveva creduto, sposandosi con Mirelle,
che fosse per sempre, così come sua madre era stata con suo padre. Ma nessuno
gli aveva insegnato come vivere con una donna per sempre, giorno e notte,
rinunciando persino ad essere se stessi; nessuno gli aveva insegnato cosa fare
con una donna per trattenerla. Non era sufficiente innamorarsi, sposarsi per
avere una famiglia nella quale inserire un figlio e credere che fosse per
sempre. Non era sufficiente essere persone mature e responsabili, pronte ai
sacrifici per vivere con una donna per sempre. Per rendere un matrimonio
indissolubile ci voleva quella fede che Silvano non aveva: non credeva più in
Dio. Ci doveva essere una qualche motivazione più profonda nell’unione di un
uomo con una donna che non poteva certo essere la procreazione per la
salvaguardia della specie, né come affermava la Chiesa di Cristo, un mezzo
divino per procreare futuri spiriti per il Paradiso. Perché Dio aveva creato la
donna? Nel Paradiso Terrestre tutto era preordinato e perfetto, troppo di tutto.
L’uomo non era felice, aveva la percezione di essere finito, aveva il bisogno
di trovare un completamento per essere infinito come Dio, così lo vide Dio
stesso; per questo creò la donna, compagna per l’uomo. Per questo l’uomo
aveva un mai soddisfatto desiderio di donna? Per questo non gli era mai
sufficiente una sola donna?
Silvano aveva vissuto trent’anni in
una società preordinata, lineare. Non si era mai posto il problema quando si
trattava di sua madre; dei tradimenti e dell’insoddisfazione di suo padre, ora
era lui ad essere dentro il problema. Ma rispetto a sua madre pensava che non
era umano amare un solo uomo o una sola donna alla volta, imprigionati in un
matrimonio senza chiavi sopportando miseria e violenza.
La società nuova in evoluzione non gli
era d’aiuto visto che gli occupava tutto il tempo per sopravvivere
impedendogli di pensare, condizionandolo nell’informazione e nella ricerca del
senso del vivere.
Mirelle aveva ricevuta un’altra
educazione, aveva altre idee. Non gli era stato possibile trattenerla.
Entrò in crisi esistenziale profonda.
La descrisse sotto forma teatrale. La inviò ad una casa editrice per avere un
giudizio. Non ebbe risposta.
Ve la ripropongo nella sua versione
integrale, non corretta affinché possiate giudicare, e convincervi di come in
realtà vanno le cose.
Il titolo: “L’uomo in rivolta.”
A me, che non sono un critico teatrale,
sembrava un buon testo e me lo sono riletto più volte. Se fosse dipeso da me
oltre che pubblicarlo lo avrei fatto rappresentare. Mi sarebbe piaciuto
osservare la reazione della gente alla rappresentazione della vita umana, dal
vivo, in teatro, spettatrice ed allo stesso tempo attrice incosciente.
Invece la risposta, come d’altra
parte era prevedibile, fu negativa: non è richiesto questo tipo di teatro, non
fa ridere ne piangere, non ci sarebbe da guadagnare.
Me la sentivo questa conclusione,
l’avevo intuita leggendo sulle riviste specializzate che i testi preferiti
erano i classici o quelli d’autori che descrivevano la violenza giornaliera
della vita metropolitana o la dolce vita delle classi più in usando parole
ricavate dagli spot pubblicitari, una vita senza senso, appunto.
Silvano, che ormai non si teneva più
aggiornato di quello che accadeva nella società civile, società ricca per
ricchi, ne fu nauseato.
In questa società, si convinse, non
contano le capacità, neppure le idee, ma le eredità dei padri, il nome dei
padri, il nome del padre ed il suo non era nessuno: era stato soltanto un
semplice impiegato statale che aveva ricevuto uno stipendio in grado di farlo
sopravvivere, di fargli allevare dei figli ma senza fornire loro gli strumenti e
le capacità necessarie per competere.
Ora doveva essere qualcuno, ora che
doveva educare e crescere un figlio, aveva paura.
Certo, un medico per ogni problema
c’era, ma a quale vita educarlo, per quali fini, con quali mezzi? Questa
società scientifica assoggettata alla matematica delle regole economiche non
aveva più nulla d’umano e di razionale. Anche Dio ne era escluso, anche Dio
aveva un costo antieconomico.
Si sentiva confuso, incompreso,
sfiduciato, sicuro di non poter insegnare un lavoro al figlio perché non era
quello che la società gli richiedeva; non sapeva neppure quali valori
comunicargli.
Di una sola cosa era certo: voleva bene
a suo figlio.
Aveva trent’anni, era solo con un
figlio di tre mesi, si sentiva un fallito, doveva reinventarsi una vita.