CAPITOLO XI

Il Muro di Berlino era caduto da tempo, il finto socialismo russo aveva fallito nella concorrenza a fornire una realtà materiale migliore da vivere ai cittadini. L’occidente scientifico-capitalista aveva vinto, aveva avuto il via libera nella costruzione della casa dell’uomo. La società nuova sarebbe stata ricreata, costruita sulla concorrenza tra i singoli e tra le nazioni, sul denaro e sulla potenza, a cominciare dalla Nuova Europa che non sarebbe stata una società per l’uomo, ma un immenso mercato in mano a pochi ricchi e potenti. La convivenza civile era sconvolta nei suoi fondamenti: il futuro non era una sicurezza; la sopravvivenza dei vecchi, dei malati, dei figli era il risultato della lotta tra gli individui e tra gli stati. Le nazioni si stavano trasformando in piccoli regni feudali il cui unico signore, la cui unica religione era il denaro, l’efficienza e la concorrenza. Era necessario adeguarsi, chi non riusciva, chi non aveva i mezzi per farlo era spacciato. Le nazioni correvano il rischio di guerra civile o alla meno peggio, d’essere retrocesse nella graduatoria delle potenti che dettavano le leggi alle quali tutte le altre dovevano adeguarsi. I popoli erano continuamente chiamati ad eleggere inutilmente i loro governi; la stampa internazionale assecondava gli avvenimenti senza neppure comprenderli o criticarli; il vivere era affidato alla fortuna delle lotterie e al volontariato. I più fortunati che potevano agire per il proprio vantaggio affermavano che così facendo facevano il vantaggio di tutti. I politici neppure, sapevano di essere costretti, a loro volta, a seguire gli eventi, ad assecondarli, non a dominarli.

La Chiesa non era in grado di intervenire, non era neppure ascoltata. Le coscienze entravano in crisi, ognuno badava a se stesso. Le coppie rinunciavano al futuro, rinunciavano all’impegno della famiglia, non procreavano, non lasciavano le famiglie, il lavoro cominciava a mancare. Seguivano il loro impulso, il loro cuore nuovo ignorando ogni altro valore.

Silvano era ritornato in paese. Trovò che era diverso nelle persone: altra gente, proveniente da altri continenti lo abitava. Fuggivano la fame o la guerra, venivano ad occupare la miseria rifiutata dei lavori umili e malpagati, lavori che non davano avvenire. Vivere, per chi voleva integrarsi in questa società, diventava sempre più costoso. La gente diventava egoista, menefreghista, pronta a denunciare chi le calpestava i diritti, ad essere violenta, ad esigere, a condannare. Gli extracomunitari erano più fortunati: raccolto qualche soldo sarebbero ritornati nei loro paesi a vivere da milionari.

Silvano aveva rivisto anche i luoghi della sua giovinezza. Non erano più gli stessi: i prati, i boschi erano stati cintati. E non perché qualcuno, come una volta, rubava la legna o le castagne o l’uva o il granoturco, che ora marcivano a terra; non perché l’erba veniva calpestata, neppure veniva più tagliata, ma per il gusto del possesso.

Anche il torrente dove andava a pescare, con le mani, le trote, infrangendo le leggi, in barba al guardiacaccia, era inquinato, i pesci quasi inesistenti. I sentieri in mezzo ai prati, che percorreva a piedi o con la vecchia bicicletta, erano scomparsi: strade asfaltate ne avevano preso il posto. Rivide Luciana. Gli ricordò che l’aveva amata. Ci riprovò. Lei si rifiutò dicendogli che era sposato. Gli svelò anche che davvero l’aveva amato, che ne aveva avuto paura: si sentiva troppo giovane allora, non ancora pronta per una relazione duratura.

La sorella, superata la crisi provocata dall’aborto, aveva conosciuto e sposato un bravo uomo, un operaio meccanico che di tanto in tanto era spedito in giro per il mondo ad insegnare ad altri l’uso delle macchine che costruiva seguendo in ogni minimo dettaglio i disegni dei tecnici.

Suo padre asmatico e cirrotico, dopo una breve agonia morì. La vecchia madre fu più fortunata di tante altre vecchie vedove perché riuscì a trovare un posto al ricovero. Si segregò volentieri non volendo essere di peso ai suoi figli. Non visse a lungo e non ebbe la fortuna di vedere i suoi nipoti.

Era trascorso un anno da quando era ritornato nella sua vecchia casa d’infanzia. Un mattino, così com’era tornato, ripartì. Non portava con sé bagaglio alcuno. Non aveva nessun ricordo, nessun legame con sua madre e suo padre, con i luoghi della sua infanzia, con la sua patria. Niente e nessuno lo trattenevano. Pensava soltanto all’incontro con Mirelle, la donna che aveva sposato; sentiva bisogno di rivederla, riconquistarla forse. Da tempo sognava l’incontro con lei, lo voleva, ne aveva paura. Quale sarebbe stata la sua reazione? La sua situazione? Aveva un altro uomo? Com’era il suo corpo? Il suo viso? La sua voce? Il suo sguardo? La sua pelle? Il suo odore ed il sapore? Con l’ebbrezza e la vertigine di chi si trova di fronte al giudice, bussò alla porta di casa.

Lei gli aprì.

-Sapevo che saresti ritornato. Commentò senza entusiasmo

-Sei bella. Rispose Silvano abbracciandola.

-Dai entra. Disse sottraendosi.

-E’ tuo figlio Luca! Spiegò a Silvano che aveva preso una foto posata sul tavolo in sala.

-Mio figlio? Perché non mi hai avvertito? Sapevi dov’ero! Sapevi quanto ci tenevo ad essere padre. Dovrei arrabbiarmi molto per questo.

-E’di là che dorme. Vieni...E’ sveglio. Ti ha sentito arrivare. Prendilo in braccio. Che stupida. Sarai stanco del viaggio. Non ti ho preparato neppure da mangiare. Ti preparo qualcosa.

-Come ai vecchi tempi. Disse Silvano. Mangiò sui soliti piatti di plastica, bevve nei soliti bicchieri di plastica, tenendo seduto sulle ginocchia Luca, ignorando la moglie.

Mirelle riprese Luca, nervosamente, appena cominciò a piangere. Lo allattò con il biberon, lo riportò nella culla a dormire. Silvano sparecchiò. Si recò in bagno e fece la doccia. Informò la moglie che l’aspettava a letto. Anche Mirelle si fece la doccia. Si guardò allo specchio. Si piaceva, era ancora una donna desiderabile: il massaggiatore, la ginnastica, l’estetista dai quali si recava ogni settimana facevano un lavoro fantastico. Si vestì della sottoveste azzurra per presentarsi.

-Sei bellissima. Le confermò Silvano. Vieni.

Gli si sdraiò accanto. Le mani si intrecciarono nervose. Le bocche si unirono impacciate.

-Accarezzami come facevi allora. Le chiese. Si spogliarono, si accarezzarono. Silvano percepì di nuovo l’odore, assaporò il sapore della sua donna. Percepì malinconia nel loro abbraccio. Fecero del sesso a cercare una ragione per ricominciare. Entrambi sapevano che non era sufficiente amarsi, avere un bambino cui accudire, lavorare per avere; sapevano di dover trovare un senso più profondo per il loro vivere insieme. Ma nessuno glielo aveva insegnato, non era neppure richiesto per vivere in questa società.

-Che hai? Chiese Silvano.

-Niente.

-Sei diversa, fredda nel fare l’amore, quasi obbligata.

-Ci ho provato. Esco con un uomo.

-Cos’è che non funziona tra noi?

-Non lo so.  Non sono pronta per essere moglie e mamma. Mi sento costretta, senza libertà. Io sognavo una vita diversa. Voglio seguire gli impulsi del mio cuore.

-Se è così non mi fermo.

-Non ti trattengo, non ha senso, non c’è più amore tra noi.

-Luca lo porto via con me.

-E’ tutto tuo. Non ho abortito perché come sai sono contraria ad ogni forma di violenza...l’avrei dato in adozione se non ritornavi a prendertelo.

-Riparto domani.

-Come vuoi.

-Non hai altro da dirmi?

-Siamo troppo diversi. Non ho nulla da dirti. E’ stato bello sino a che è durato. Ora, se non vogliamo odiarci, è meglio che ognuno percorra la strada dove lo conduce il suo destino.

-Se è quello che pensi. Non mi opporrò, non combatterò per trattenerti. Lo sai, io non sono capace di queste cose. Ho sempre detto e voluto la verità. Se la verità è questa non ci resta altro che dirci addio.

-Vienimi a trovare quando passi per Parigi. Disse preparandosi ad uscire.

-Dove te ne vai? S’informò.

-A ritrovarmi nella vita notturna di Parigi. Fu la risposta.