I tre giorni della tenebra.

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I tre giorni della tenebra.

 

PROLOGO

 

 

Io che vivo da tempo oltre il tempo, già condannato in eterno e della notte infuocata e dei terrori imminenti dello scadere del tempo che io già so; io li vedo a poco a poco, precipitare e già stava per arrivare il momento che sarei salito solo verso il tempio distrutto.

E adesso io vivo. Non ho tristezze sapevo che nella notte tutto ancora poteva andare in fiamme e l’umano universo perire. La terra si sarebbe svegliata il mattino svuotata di Dio ed io forse avrei dormito dentro un letto, con te accanto. Questo si.  Ma chi è transitato oltre il suo tempo, già sfiancato, intirizzito, bestemmiando è perso. Più di me, eterno.

Oggi anno del signore 2014. Mi ricordo altre vite che ho vissuto la notte contento e cantando, ridendo. Nessuno sapeva che il tempo era cosi breve. La colpa, devo dire, e concordo con questa illusione, non va data al Cristo. Anzi, ne sono certo, lui potrebbe ancora salvarmi se il tempo non fosse già finito.

Quando venne il Cristo, l’anno che dicono anno zero, io da un pezzo vivevo qui sulla terra dove affittavo sogni a chi si vendeva per una grazia.

La sua venuta mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di mangiarmi da solo gli anni e rimpiangere le occasioni perdute. Si direbbe che io, il Cristo, l’attendessi da tempo e ci contassi per scatenare la guerra fratricida, cosi insolita e vasta che, con poca fatica, ci si poteva accucciarsi  lasciarla infuriare nel cielo e sulla terra.

Ora anno 2014 del signore, accadono cose che il semplice vivere senza lagnarsi, senza quasi parlarne, mi pare già una vittoria.  E quella specie di sordo rancore in cui si è conclusa ed esclusa la gioventù ed i vecchi, troverà nella fine agognata e cercata una tana, un orizzonte. Eterno.

Per loro di nuovo, stasera salirò l’altare del tempo che si ripete. Imbrunisce e di là dell’incenso, e la tenue luce delle candele artificiali, sporge la croce.

So che lei se ne sta accucciata, mi aspetta e, nella penombra, la sento pregare. So che trema. So che al vedermi si alzerà a corrermi incontro, per abbracciarmi e baciarmi in bocca. Io la calmerò, le dirò parole vuote sino a che si risiederà a fiutare l’odore del sesso.

Ma appena si accorgerà che invece di inginocchiarmi sul banco a pregare, la guarderò, farà un salto di gioia e si butterà tra le mie braccia.

Mentre ci si spoglierà lei fiuterà e riconoscerà le antichi radici, le vite nascoste e moltiplicherà per me il piacere della riscoperta. Ma non era giunta l’ora.

Fin dai tempi del principio, mi era parso che errando sulla terra senza lei, avrei perso troppa parte del mio tempo e dell’occulto della terra. Ma avevo altri obiettivi.

Non volevo altre conquiste prima che fosse notte avanzata, giacché sapevo che le mie serve, i miei servi della terra mi attendevano come il solito per invocarmi e farmi discorrere e chiedere cure ed informazioni, sentire opinioni sul mondo, sulla guerra che sarebbero serviti per il futuro contro i loro nemici. Qualche volta chiedevano un aiuto contro la minaccia. Un malocchio, una malattia dava loro argomento per fermarmi sulla porta del tempio o intorno all’altare e cianciare, stupirsi esclamare, tirarmi alla luce, sapere chi ero, indovinarmi un uomo, uno di loro cui chiedere sesso e ricchezze.

A me piaceva invece restar solo, nella tenebra delle sacrestie oscurate, tenendo l’orecchio, ascoltando la notte, sentendo il tempo passare e l’avvicinarsi dell’ora della sua uccisione.

E quando nel buio, dalla terra muggiva una preghiera al mio nemico, il mio primo sussulto era di dispetto per la solitudine che se ne andava, e disprezzo per le paure umane.

Quella sera di ieri, due donne spegnevano il candelabro Delle due preferivo la vecchia, la madre che nella mole e gli acciacchi portava il tempo e si poteva immaginarla sull’erba del giardino terrestre a nutrirmi come un poppante, come appunto apparirebbe una croce a braccia aperte oscurata.

L’altra, una delle sue tante figlie, ancora vergine pur sulla trentina, due seni acerbi, era scollata. Magra ed asciutta. Era agitata dal timore che la salvezza le arrivasse mentre ancora era vergine. Sapevo che mi pensava con ansia e me lo disse, un giorno che le fui accanto. Disse che pativa quando stavo con sua madre, pativa quando scivolavo per la terra. Ed una volta sua madre la canzonò in mia presenza e lei pronta rispose che se volevo la vergine avrei dovuto star con loro anche di giorno, non solo la notte.

Il tempo correva per me davanti e dietro e mi invitava a cacciarmi in ogni guerra. Ma quella sera preferii soffermarmi sull’altare, tra il fumo dell’incenso della festa ed i lumi delle grazie richieste.

Cosi mi piaceva la grande chiesa, il tempio di Yahweh.  Nel passato era uguale. La storia è punteggiata di luci ed ombre, di vite apparenti e tranquille, di uomini e donne tra le cosce delle cose, tutto è sempre uguale.

Anche adesso si sentono voci scoppiare in riso. Ma anche l’angoscia pesa più del buio. La terra è ritornata selvatica, come l’avevo conosciuta all’inizio.

Dietro la scienza e la tecnica, dietro la politica, l’economia, di notte dentro le alcove ed i templi l’antico indifferente cuore della terra cova il buio coltivando occulte paure. Si direbbe che sotto ai rancori ed alle incertezze, sotto il divino silenzio e la voglia di guerra, di nuovo mi scoprivo senza età, con la voglia di avere dalla prima donna il mio erede.

Rivedo questa notte, questa terra, l’eden dove ho vissuto. Rivivo questa notte la conquista di allora. Ho patito si, la condanna, ma col piglio ribelle, di chi non riconosce ne ama il padre né il prossimo. E discorrevo, discorrevo mi tenevo compagnia.

Di nuovo, questa sera, sale dalla chiesa che si risveglia, un brusio di voci, frammisto a canti che ne richiamano altri d’altri tempi, una voce, il verbo.

Mi ricordò per un momento la comitiva dei fuggiaschi che da Sodoma e Gomorra, la sera del fuoco, brulicavano sulle vie di fuga per raggiungere i centri di raccolta.

Ma dio non si spostava, sempre nello stesso luogo, dalla terra. Era strano pensare che sotto il fuoco, davanti la citta eterna, ammutolita, un gruppo, una famiglia, della gente qualunque, ingannasse l’attesa cantando e ridendo con Dio. Non pensavo nemmeno ci volesse coraggio per fare tanto.

Questa notte la chiamano Notte di Natale, una notte chiara, ed è bello stare sotto il cielo. Basta abbandonarsi e seguire la stella. Ma per me, contento di non avere nei miei giorni un vero affetto, né un impaccio, per me felice di essere solo, di non essere legato con nessuno… no, non volevo un figlio.

Adesso mi pareva di aver sempre saputo che presto si sarebbe giunti a questi tre giorni di silenzio, a questa angoscia perpetua che limita ogni progetto dell’indomani, del risveglio, e quasi l’avrei detto a lei se lei avesse potuto capire.

Il tempio piantato sulla terra, latrava. Lei blaterava. La strinsi per i fianchi, la feci tacere, e ascoltai meglio: tra le voci avvinazzate dei sacerdoti ce n’erano di limpide. Poi risero, e salì una voce isolata di donna, che sapevo bellissima. Dissi a me stesso: Ti aspettano. Lascia che aspettino. Sono già in mio possesso. Sapevano che preparavano la vergine, per me. Per dare inizio ad un'altra trinità.

Sapevo ciò che stava accadendo e dove. Sparii con un balzo tra i pastori. Lui era la. Ed andai oltre.

Quando sbucai sul Calvario era buio pesto. Guardavo nel buio, di la della croce, sommerso dalle voci, tuonava la fine.

Sentii Gerusalemme raggelarsi, il trapestio, le porte sbattersi sbigottite, i muri cadere, il velo del tempio squarciarsi. Il cielo oscurarsi, le saette che piovevano come luci.

Adesso la lagna è cessata. Sale l’incenso verso il cielo. Qualcuno abbaiò poco lontano. Corsi da lui. Si era impiccato. Oscillava da un albero poco lontano dal giardino degli olivi, in mezzo alla gente uscita di casa curiosa a vedere.

Dalle porte socchiuse filtrava la luce. Qualcuno gridò: è morto.

- chi è morto?

- Chiudi l’uscio, ignorante! Gli risposero. E risero vociando, mentre la porta spegneva la luce

 

 

 

CAPITOLO PRIMO

 

 

Conoscevano il Cristo tra loro; qualcuno nominò con buon umore anche il mio nome e m’accolsero senza chiedermi chi fossi.

 Gente andava e veniva nel buio; c’era qualche bambino, guardavano tutti la stella ferma sulla collina.

-E’ la fine? Non è la fine? Verranno le legioni? Non verranno? Dicevano. Parlavano del regno promesso, di guai, della distruzione. Una donna seduta sola, in disparte, mugolava cose insensate tra se.

- E’ nato. Disse il gran sacerdote. Lo aspettavamo.

- Credevo che qui si ballasse. Disse una serva.

- Magari. Risposi.

- Ce l’avresti il coraggio? Disse una ragazza.

- Si, per Lui morto ballerei e ballerei anche se bruciasse la terra.

-Si, si. Disse un'altra, balliamo.

- Non si può. E’ la fine, questa è la fine. Questa fine l’ha fatta per voi. Ve l’ha regalata. Voi siatene degni. Non si dovrà più né ballare, né dormire. Dovete solo continuare la guerra e pregare.

- Sta zitto! Stronzo!

- No. Oggi si canta e si balla. Ed intonai la canzone antica. Si unirono alcune ragazze. Una vecchia continuò a blaterare litanie.

- Sta buona. Le dissi.

Sotto il grande candelabro di Salomone, sull’altare c’era un fiasco di vino e del pane, dimenticati li da tempo. Un vecchio ne versò anche a me. Aveva l’amaro retrogusto di sangue d’agnello cotto alla brace.

Erano tutti figli di Adamo in attesa.

-         Fin che dura va bene, ma poi? Chiese una ragazza.

-         Non abbiate paura donna. Qui, per voi, ci sarà sempre un posto. La confortò il sacerdote.

-         Adesso è niente, ma poi?

-          Poi sarà tutto finito. Sbottò un ragazzino sveglio.

Le ragazze cantavano. La vecchia custode riapri le porte. Io reclamai che spegnesse la luce. C’era in quella massa, nel loro scherzare, nella solitudine del pane e del vino, qualcosa che conoscevo; qualcosa d’altri tempi, d’altre sere, di scampagnate notturne, d’amicizie passate.

E nel buio del tempio, il quel vuoto, un sapore ancora più antico. Sentivo le voci ubriache di sesso. Ridevano piano, di gusto. Seduto sulla trave del tetto, guardavo il crocifisso. Mi disse una voce: E lei che fa? E’ in villeggiatura? Sapevo chi era e risposi scherzando che andavo di festa in festa. Mi chiese se dove andavo si ballava e se le insegnavo a ballare. Le risposi che quella sera era qui la festa. E le chiesi: Ma chi le ha detto che insegno?

-         Si capisce. Disse.

C’era qualcosa nella voce. O era un gioco che avevo insegnato, di parlarmi come maschera?

In un attimo vissi tutti i tempi per trovare che mi fossi tradito, e conclusi che quelli che mi conoscevano, le vecchie, forse sapevano e ricordavano ancora di me.

Le chiesi se era la vergine del tempio.

-         Si, mi rispose.

Sospeso nell’ombra la guardavo dall’alto. Sapevo che era ben fatta, non mi era necessario scorgere la curva delle spalle e delle ginocchia. Sedeva stringendosi le ginocchia con le mani con aria beata. Nuda ai miei occhi.

-         Non vuole mica mangiarmi. Mi disse in faccia. In quel momento si sentì il velo del tempio squarciarsi. Per un istante tutti tacquero increduli, poi scoppiò un gran baccano ed i ragazzi si unirono alle vecchie benedicenti. Gli uomini, bicchieri alla mano, battevano il tempo.

Stanotte passerà, le dissi. Ora devo ritornare nella banca a curare i miei affari. Verrò più tardi.

La ragazza non si era scomposta. Aveva abbandonato il capo contro l’altare, e quando le dissi: è ora che io vada. Non rispose nulla.

Mi alzai. Era notte dalla notte e girovagai per le strade a guardare la morte in faccia, prima di andare a contare il mio capitale. Quando rientrai nel tempio per incontrare i sacerdoti, ed i politicanti, era sempre notte. Lei era ancora li. Seduta con le mani in mano, le labbra cucite.  Disse soltanto: Stasera qualcosa è successo sulla collina. Qui si stava in pensiero. Abbiamo interrogato gli scienziati, ma non sanno che dire.

Scossi il capo e sorridendole la guardai. Si alzò girandomi attorno con la lampada.  Ho poco olio, ti voglio. Disse.

-         Fosse così tutte le sere. Borbottai. Ma non è ancora giunta l’ora.

Non disse nulla. Pensavo all’incontro. Alle cose accadute. E più di lei mi importava del tempo, dell’eterno. Mi pareva di aver riaperto il tempo dimenticato e di averci trovato dentro la vita, la mia vita futile da condannato. Era questo che non volevo. Non tanto lei, non i piaceri di un tempo. Ma io giovane che viveva temerario, che fuggivo alle cose credendo dovessero ancora accadere. Ed erano già accadute e si era già alla fine. Che c’è in comune tra me e lui nato per essere crocifisso?  Che cosa aveva fatto per me? Io per lui? Forse stava arrivando per me, l’ora, di generare.

La giovane donna prese il candelabro e lo spostò in centro all’altare. Mi disse di spegnere quando sarei salito. Capii che esitava. Le dissi: tranquilla, lo spegnerò. Il tempo eterno, questa notte che lui è morto, è nostro.

Lei tossì con la mano sulla bocca e fece per ridere. Ecco, mi dissi, non corri più i rischi del tempo iniziale. Questa Eva ti vorrebbe dire di raggiungerla, che vuole parlare con te, ma non osa e magari si torce le mani nell’attesa. Non promette piaceri e lo so bene. Ma si illude che tu continui a viver solo e spera che la mia vita sia tutta qui dentro, nel candelabro, nel tempio, sull’altare, nelle banche, tra le sue cosce. Tu lo sai che non corri questi rischi e non la cerchi perché è già tua. Eppure sai che la prenderai, che  cerchi lei che non è lei, la vergine promessa per avere da lei il figlio.  Mi venne da chiedermi se la Eva di allora, nel prendere la mela, si era illusa così.

All’inizio, cos’era Eva? Una donna magra e violenta o era grassa e docile? Se usciva con me, se veniva in giardino, se mi stringeva tra i suoi seni, cosa sperava?

Era il tempo che frequentavo l’Eden, che davo lezioni di vita e bastavo a me stesso. Non avevo nessun avvenire ed ogni inutile mattina era una promessa. Vedevo molte creature in quei giorni, mi davo d’attorno e vivevo con molti. Non so come Eva mi capitò, stava nel giardino, conviveva con uno che dormiva. Ci andai da solo e la chiamai. Lei accettò. Con lei sull’erba giocai alla lotta e a nasconderci tra i cespugli. Lei poteva facilmente imbronciarsi, ma non per questo perdevo l’iniziativa. Sapevo che l’avrei presa. E quando accaldata e stanca, si sedette sotto il melo, si lasciò carezzare. Le aveva preso il batticuore che la si vedesse. Tra noi non vi sono state altre parole. Non occorreva che parlassi o promettessi. Cosa c’era di diverso tra il lottare e l’abbracciarsi? Così ci prendemmo sull’erba tra i fiori, una volta, due volte.

Poi dopo se ne stava seduta in soggezione. Aveva perso la risata. Non aveva capito. Le offrii la mela per ricompensarla, e ciò la riempì di gioia.

Aveva ancora la pelle bagnata ed era una pena saperla tanto contenta ed ignorante. A  volte, aveva sciocchi entusiasmi, delle brusche resistenze ed ingenuità irritanti. Una sera, che la tenevo tra le mie braccia e volevo prenderla in modo bestiale. La pregai, la supplicai di farlo, scherzai, feci il buffone

-         Non ti mangio, le dissi. Non voleva saperne. Teneva le cosce strette e ripeteva. Giriamo per il giardino.

-         Dopo, le dicevo. E lei imbronciata a ripetere: non vengo con te in quel modo. 

 

 

1 GIORNO

 

Quella sera che si uccisero gli innocenti ballai all’ombra di una dionisiaca luna rossa. Chiacchierai come piaceva alle vecchie.  Dal vicino convento era venuta una giovinetta, la protetta dal gran sacerdote, promessa in sposa al potente banchiere.

Il popolo mormorava che era un delitto trattenere una così bella giovane in convento, lontano dagli uomini.

Ed i politici, i giudici, gli economisti… non li diamo ai banchieri? Aggiunsi io.

Le mie battute facevan ridere e mettere a disagio.

La giovinetta mi frugava con gli occhi.

-         Quello che dici, lo pensi, o è una presa in giro?

-         Tocca agli economisti fare la guerra, dissi.

-         Vero, non si sono mai viste cose così.

-         Tocca a tutti.

La luna cadeva dietro i monti. Tra qualche notte sarà luna piena e scoperchierà le tombe.

-         Hanno detto che la crisi finirà. Disse la vecchia ad un tratto.

-         Finirà? Le risposi. Ma se non è ancora cominciata. Mi fermai e tesi l’orecchio. Qualcuno canta. Feci osservare.

-         Meno male.

-         Che matti.

-         Pensavo fossimo in crisi.

-         Non per tutti.

Lasciai la giovinetta alla porta del convento. Quando fui solo sulla strada mi recai all’incontro che cercavo sotto la luna. Arrivai che la radura era ancora vuota. Nella penombra vidi l’altare, i tavolini di pietra antica. Sull’altare pendeva la sagoma dell’ultimo agnello. Sembrava tutto abbandonato.

Poco dopo un ragazzo vestito di bianco, fermò la sua corsa. Si voltò indietro e chiamò sua madre che lo seguiva con lo sguardo.

Poi mi vide ed impaurito la raggiunse e si strinse alle sue gonne.

-Scemo, gli disse sua madre. Non è niente.

-Sei tu? Le chiesi.

-Mi prendi in giro? Ti fai vedere solo per prendermi in giro?

-Ieri notte non ti ho sentita cantare.

- Perché non vai con altre se vuoi sentire cantare?

- Ti sei sposata?

- A te che importa?

- E’ un bel ragazzo, ben fatto, continuai. E’ mio figlio?

- Va a scuola nel tempio. Disse.

Sotto la luna la vedevo bene. Era la stessa di allora. Ed era solo ieri che giaceva con me.

-         Tu non canti, non balli per me questa notte?

-         Sei venuto solo per sentirci cantare? Perché non torni da dove sei venuto?

-         Sciocca. Le dico sorridendo. Non pensi a quei tempi? Tu non lo credi, ma non c’è altra donna con me.

-         Io di te non so niente, che vita hai fatto? Come vivi? Dove sei? E quasi piangeva.

-         E tu cosa hai fatto?

-         Non mi vuoi dire la vita che hai fatto.

Comparve una vecchia dicendo: chi c’è?

La donna le rispose che ero io, mentre scomparve la luna.

-         Non ti cambi? Disse la vecchia. Non sai che l’erba sporca il culo?

Non rispose. Io le parlai della luna nera che sarebbe stata. Ci incamminammo insieme verso l’altare. Avevano smesso di suonare e cantare. Bevevano e ridevano. Due ragazze mangiavano mele sotto un albero. Le staccavano dai rami più bassi. Mangiavano e ridevano. Pietro le guardava mentre un gallo cantava.

-         E’ arrivata più gente dell’altra notte. Dissi.

-         Chi comanda è gentaglia. Non ci pensano. In che mani ci hanno messo.

Le due ragazze mi tirarono mele. Erano appena state accese le candele.

Eva disse. È ora.

Allora tutti fecero circolo attorno all’altare.

-         E’ ora. Disse la vecchia sospirando.

-         Anche quelli? E’ gente d’alto rango. Son professori, politici, banchieri e scienziati.

-         Si mettessero d’accordo. Tanto tra loro non si mangiano.

Presi Eva per mano. Fece un passo con me, poi si fermò.

-         Non ti sarai fatto come loro, mi disse.

Era seria. Le ripresi la mano. Lo siamo tutti. Dissi. Se non lo fossimo dovremmo rivoltarci e rischiare l’esistenza. Chi lascia fare e si contenta è già uno di loro.

-         Non è vero. Disse. Si aspetta che sia il momento per rubare ed arricchire. Era indignata. La tenevo per mano.

-         Una volta non sapevi queste cose.

-         E tu che fai?

Allora le dissi che volevo il regno. Ridemmo insieme.

- Non sapevo che eri ancora vivo. Ti pensavo morto.

- Succede, si passano anni insieme. Poi uno crepa e non si sa più nulla.

-         E’ sempre stato così. Tutti un bel giorno…siamo soli.

-         Non è poi così brutto.

-         Ogni tanto si ritrova qualcuno che si pensava morto. Ma che importa? Tu non hai nessuno. Tu vivi solo.

-         Io sono di tutti.

Allora mi raccontò di se. Disse che aveva lavorato, aveva fatto la puttana per i banchieri.

-         Quella sera che noi…, la interruppi, ti sei offesa?